di Alessia de Antoniis
Ha debuttato in prima nazionale al Todi Festival “La Febbre” di Wallace Shawn, il testo che la regista Veronica Cruciani ha scelto per ripartire dopo la pandemia.
La Febbre inizia come ogni altra febbre, senza preavviso. Una gentile e accogliente Federica Fracassi entra in scena come se stesse dando una comunicazione di servizio. Alle sue spalle un’imponente scenografia alta sei metri, sovrastata da uno schermo altrettanto largo, e un piano fortemente inclinato lungo il quale lo spettatore scivola nelle pieghe di un testo che non è un mero j’accuse al capitalismo, ma uno specchio nel quale riflettere la nostra ipocrisia e lo fa a partire da una semplice domanda: ma voi ce l’avete un amico povero?
“Non è un testo narrativo, ma il delirio che c’è nella mente della protagonista”. Inizia così la chiacchierata con Veronica Cruciani all’indomani della prima. “Un monologo che non dà risposte, come è giusto che sia in teatro, dove alla fine lei dice: viviamo una vita corrotta, dove non c’è giustificazione al fatto che ci siano i ricchi e i poveri”.
La Febbre è una critica al capitalismo affidata a una borghese. Cosa ti ha attratto?
È la crisi dell’uomo occidentale borghese. Questa ricca newyorkese rappresenta il forte divario che esiste tra ricchi e poveri. “Alla fine tutti noi andiamo al ristorante, mangiamo pesce – recita in scena – andiamo a teatro, ci piacciono libri, il cinema, siamo sensibili, siamo democratici”. La riflessione che fa in questo delirio, è che i suoi privilegi sono basati sulla miseria degli altri. Non c’è nessuna giustificazione al fatto che “c’è chi muore di fame e chi è vestito incartato come i pacchetti da regalo”.
Le sue domande provocatorie vogliono minare quelle ipocrisie, quelle piccole bugie, che ci diciamo per non vedere la verità.
In un punto lei dice: la mia simpatia per i poveri non cambia la vita dei poveri. È un testo non dà nessuna soluzione. È questo che mi piace. Neanche la pandemia ha cambiato il mondo. C’è un pianeta che soffre, e nessuno interviene. Lei dice anche: avere senso di colpa non cambia la vita dei poveri. Il senso di colpa non basta: non c’è vero cambiamento se poi non si fanno azioni.
Il testo si chiama La Febbre, perché il giorno dopo la febbre sparirà e lei tornerà quella di prima. Lei dice: ho bisogno dell’albergo, delle colazioni, delle passeggiate, del ristorante chic; ho bisogno di consolazione. In questa febbre io sono in crisi e vedo la verità, poi la febbre passerà e io tornerò a mentire come facevo prima.
Lei oscilla tra disgusto e pietà, pena e desiderio di aiutare il mondo. Ma poi dice: i privilegi sono i miei e me li sono guadagnati. Ci addoloriamo per quello che sta accadendo in Afghanistan, ma poi, in fondo, viviamo nei nostri privilegi…
Come occidentale provo vergogna per quello che è successo a Kabul. Molte persone mi hanno detto che guardando lo spettacolo hanno pensato alla situazione afgana. Ho incontrato questo testo durante il lockdown. Con Francesca ci siamo chiesti cosa si potesse portare in scena in un momento simile. Non solo la guerra è classista, anche la malattia: i ricchi possono curarsi e i poveri no. C’è chi ha il vaccino e chi no.
Quando abbiamo letto La Febbre, abbiamo pensato che fosse un monologo adatto in un momento così potente. Un testo che può scuotere le coscienze. Quello che subiranno, che hanno iniziato a subire le donne a Kabul, è orribile. Noi qui ancora non abbiamo una vera parità di genere. Ci sono ancora tante battaglie da fare. Alcune le abbiamo vinte, altre le dobbiamo ancora vincere. Ma lì c’è una situazione tragica e l’Occidente ha una grande responsabilità.
In questo momento serve un teatro scomodo, ma che faccia riflettere sulla realtà.
Non dobbiamo far finta di niente. La pandemia è stato un trauma che ci porteremo dietro per sempre. Federica Fracassi ed io siamo abituate a fare delle scelte politiche in teatro. Non ci interessa fare teatro come semplice forma di intrattenimento, ma creare una scomodità che generi domande. Anche per noi non è stato facile lavorare su questo monologo.
Quando lei dice: “ho visto frutteti di bellezza ineguagliabile con donne che raccoglievano la frutta, che venivano impiccate, stuprate, che pendevano dall’albero”, e la vedi sporca di sangue, è potente.
Ma è anche un personaggio che mi irrita. Quando dice “sono stata in certi Paesi rivoluzionari dove però il gelato era favoloso”, la strozzeresti.
La performance di Federica Fracassi è impegnativa: schizofrenica come la sua mente…
Volevo che stesse scomoda come sta scomodo il personaggio. La sfida che il testo ci ha costrette ad affrontare era il passaggio continuo da una situazione all’altra: dal ristorante al bagno; dai bacarozzi sul pavimento alle donne impiccate e stuprate; dalla vasca nella quale lei fa il bagno profumato, al Paese rivoluzionario dove quello che la colpisce è il gelato. Tutto lo spettacolo si muove su due livelli, come nella sua mente schizofrenica, e la scenografia era essenziale.
Ho creato un’armonia tra tanti linguaggi: la recitazione dal vivo, l’audio registrato, il video, una scenografia potentissima con luci molto forti.
Ho fatto anche un grande lavoro sul corpo di Federica: quello avvolto dal suo vestito di raso, quello malato che striscia per terra e che vomita, quello insanguinato. Sono corpi completamente diversi.
Il personaggio sprofonda nel delirio, per questo ho chiesto alla scenografa di crearmi l’effetto di una caduta: Federica si muove sempre in bilico sul piano inclinato, mentre parla con il rubinetto del bagno, con il pavimento, con i fantasmi della sua mente. Ho voluto un bagno perché è il luogo dove vengono azzerati i privilegi.
Recitare venti minuti nuda nella vasca è difficilissimo. Restarci con quella naturalezza non è da tutti. Mi ha detto: per me è un gesto politico. Una donna di cinquant’anni che mette a nudo il suo corpo, protetta solo dalle luci, in una società dove si pretende il corpo perfetto di una ventenne, compie un atto politico. E solo una grande interprete come Francesca poteva seguirmi.