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Giorgetti: "Con 'La donna volubile' ripartiamo da Goldoni, che salvò il Teatro dalla fine del mondo"

Andata in scena per la prima volta nel 1751, la commedia di Goldoni non è mai stata rappresentata altre volte. Ora torna sul palco del Teatro della Pergola di Firenze

Giorgetti: "Con 'La donna volubile' ripartiamo da Goldoni, che salvò il Teatro dalla fine del mondo"
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Giuseppe Cassarà Modifica articolo

19 Maggio 2021 - 13.12


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C’è una storia particolare dietro La donna volubile di Carlo Goldoni, portata in scena oggi 19 maggio fino al 23 maggio al Teatro della Pergola di Firenze dai giovani attori e attrici della scuola d’Oltrarno, diretta da Pierfrancesco Favino, per la regia di Marco Giorgetti. Andata in scena per la prima volta nel 1751, la commedia di Goldoni non è mai stata rappresentata altre volte, forse perché considerata troppo leggera, troppo ‘effimera’. Ma se c’è qualcosa che l’ultimo anno e mezzo ha mostrato, anzi ribadito, è che nulla esiste che sia più effimero dell’uomo. Le nostre esistenze, le nostre certezze, gettate al vento dalla pandemia, cercano adesso di ricostruirsi sulle macerie di questa tragedia. E ripartire dall’effimero sembra la scelta quasi più sensata, dove effimero non vuol dire vuoto ma spazio da riempire di nuovi significati, di nuovi talenti, di nuove speranze.

Direttore Giorgetti, a cosa si deve questa scelta?

È una scelta coerente con il discorso portato avanti dalla Fondazione Teatro della Toscana per questa ripartenza, un discorso che pone al centro la materia fondamentale del teatro che è la lingua italiana. E allora come non ripartire da Goldoni, che fu il più grande di tutti non solo per ciò che scrisse, ma per il periodo in cui lo scrisse: alla fine del ‘700, in un’epoca di crisi profonda, Goldoni salva il teatro, riformandolo. E allora noi ripartiamo da lui, consapevoli che il Teatro sarà salvato da chi lo farà in futuro.

Intende gli attori?

Nel nostro Manifesto per il Nuovo Teatro proponiamo un modello che è quantomai distante dal modo canonico in cui si fa teatro in Italia, quello del regista ‘demiurgo’, cui gli attori devono obbedienza. I nostri attori sono prima di tutto artigiani del teatro, lo fanno e lo vivono in ogni suo aspetto. Perché il nostro non è un mestiere, è una missione, quella di far continuare il Teatro, il nostro ma soprattutto il Grande Teatro del mondo. Nel nostro metodo prevale la squadra, la comunità di uomini e donne che si crea davanti alla grande società. I nostri spettacoli sono l’esito dell’incontro tra giovani attori e maestri. Scene, costumi e apparati sono realizzati dal Laboratorio d’Arte e dallo staff di palco, con una dotazione economica delimitata, limitata e sempre uguale, in economia, con rigore, umiltà, integrità e sincerità.

È la prima rappresentazione dopo un anno di chiusura. Come è vissuto questo ritorno sulle scene?

Con gioia e sollievo, ovviamente, ma sa il Teatro non ha un interruttore, non si può fermare. Non è una sala cinematografica. Il Teatro è costante, perché è come l’essere umano: sempre in movimento, in costante mutamento. E gran parte del lavoro del Teatro avviene dietro le quinte. Le dirò di più: perché il Teatro funzioni, gran parte di questo lavoro deve avvenire senza il pubblico. L’incontro con il pubblico arriva alla fine, nel momento in cui davvero sappiamo se abbiamo creato qualcosa di valido o no, se abbiamo o meno lavorato bene. Il Teatro è principalmente un atto intimo, precario, non perfetto. È l’arte delle cose che si muovono.

I nostri ragazzi hanno lavorato come sempre durante il lockdown, forse con un po’ più di angoscia del solito ma il Teatro serve anche a questo, a dare una forma al caos, un linguaggio all’incomprensibile. Ora è arrivato il momento di confrontarci con il pubblico. Speriamo vada bene, che il pubblico abbia voglia di ascoltarci, ma anche fare degli errori è importante: perché ci mette di fronte la necessità di correggerci.

 

 

 

 

 

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