Teatri “ristorati” per il Covid: a giugno erano 631, ora solo 71. Scatta la protesta

Ricorso dei romani Ciak e Parioli e del Moderno di Latina sui criteri del Mibact. Il Vascello rinuncia al “ristoro”. L’Agis-Anec: misura da correggere. Dal "Fus" al meccanismo dei contributi per la pandemia

Teatri “ristorati” per il Covid: a giugno erano 631, ora solo 71. Scatta la protesta
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6 Dicembre 2020 - 13.19


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di Alessia de Antoniis

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Da aprile, nel bene e nel male, l’Italia va avanti a decreti, bonus e ristori. Compreso il teatro. Niente di strutturale.
È il 1985 quando viene promulgata la legge che istituisce il Fondo Unico dello Spettacolo (FUS). Nobile la premessa: sostenere le aziende teatrali che fanno cultura e aiutarli a ripianare le perdite grazie all’accesso a finanziamenti pubblici. I privati seguono le regole del libero mercato, mentre quelli finanziati dal FUS vengono sovvenzionati. La cultura è salva. O almeno dovrebbe.

Siamo nel 2020, arriva una pandemia e anche i lavoratori dello spettacolo si ritrovano senza reddito.
Il primo risvolto della pandemia è mettere davanti agli occhi di tutti che quello dello spettacolo è un settore dove, spesso, “lavoratore atipico” è un modo pittoresco per descrivere un lavoratore in nero. Infatti il Governo, per riconoscere il primo bonus di 600 euro, passa dalle iniziali 30 giornate con contributi versati nel 2019, a sole 7. E anche così molti restano esclusi. Ma, nonostante il problema comune, i lavoratori dello spettacolo non riescono ad essere veramente compatti. A farne le spese soprattutto il settore teatro, il più diviso. Per alcuni c’è il FUS, che per il 2019 era di 366,4 milioni, sostanzialmente confermati per il 2020.
I beneficiari sono tanti: dai teatri ai festival, dai circhi alle accademie di danza, dalle fondazioni lirico-sinfoniche alle società di produzione alle rievocazioni storiche, ai comuni. E, tra i teatri, solo quelli stabili o di interesse culturale. E gli altri? Il DM 188 di aprile assegna quota parte del Fondo agli organismi non destinatari di contributi FUS nel 2019 e, a partire dal DM di giugno, vengono “ristorati” anche i teatri privati. Con il decreto di giugno, poi, 631 teatri ricevono 10mila euro l’uno “a pioggia”.
Con le modifiche apportate dai decreti successivi, i teatri che beneficiano di uno stanziamento di 14 milioni di euro, diventano 71 .
Già, l’Italia scopre di avere solo 71 teatri e il Mibact, che ha 14 milioni di euro per ripianare il 20% delle perdite d’esercizio, calcolate sui biglietti venduti nel 2019, non si chiede dove siano finiti gli altri, ma decide di usare quei soldi per finanziare il 100% delle perdite degli ammessi al finanziamento. Risultato? 71 teatri, a fine pandemia, avranno incassato come nel 2019 senza aver lavorato e, soprattutto, senza aver sostenuto costi variabili (solo quelli fissi). Non pagheranno neanche la Siae.
Il Mibact come può pensare che nell’Italia della Commedia dell’Arte, di Goldoni e Pirandello, del Nobel Dario Fo, di De Filippo, siano rimasti solo 71 teatri? Tutte le polemiche di questi mesi? Tanto rumore per nulla?

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Facciamo un esempio: un teatro che è chiuso da marzo e che non ha riaperto, ha solo costi fissi, al netto anche dei costi del personale, perché per i dipendenti è prevista la Cig, la Cassa integraizione. E ne deve avere, altrimenti non avrebbe potuto accedere ai finanziamenti (sono le famose giornate retribuite). Grazie al Decreto, questo ipotetico teatro si ritrova con entrate che, in alcuni casi, arrivano a 600 o 800mila euro. Se il teatro in questione dovesse decidere di riaprire (e se non riapre?), avrebbe un capitale da investire per assumere compagnie, pagare maestranze, che altri non hanno. Se moltiplichiamo questo schema per 70 teatri e lo dividiamo per tutte le città italiane, rischiamo di avere una situazione dominante. E, siccome gli aiuti concessi dagli Stati membri, anche in presenza di eventi eccezionali, come quello pandemico, non devono alterare la concorrenza del mercato, nel decreto direttoriale di novembre si legge che “le attività di spettacolo non assumono rilevanza economico/commerciale e non incidono sugli scambi tra Stati, in quanto strumento di promozione della cultura ai sensi dell’art. 9 Cost.” (La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura).
Escludendo l’improbabile accusa di aiuti di Stato, qui il problema non è falsare la concorrenza rispetto ai mercati esteri, ma rispetto al mercato interno.
Se poi le attività di spettacolo sono strumento di promozione della cultura, 70 teatri sul territorio nazionale quale cultura promuoveranno?

A questo si aggiunge un’altra distorsione. I decreti precedenti a quello di settembre, prevedevano la copertura delle perdite del 20% del fatturato fino a un massimo di 50mila euro per i teatri con più di 600 posti. Di fatto, i beneficiari del FUS ne rimanevano esclusi, perché prendono finanziamenti di importo superiore. Aver portato i massimali a 100mila euro, ha ammesso alla contribuzione anche i teatri che già percepiscono il FUS.
Aver poi messo tra i requisiti il numero delle giornate lavorative (requisito fino ad ora richiesto solo per accedere al Fondo), ha ulteriormente penalizzato i teatri privati perché, come molti non sanno, gli spettacoli che vediamo sono spesso ospitati, quindi gli attori sono dipendenti delle società di produzione e non del teatro. Le maschere spesso sono pagate in modo “atipico”, come chi fa le pulizie o svolge altre mansioni, magari tramite società di servizi. Anche gli uffici stampa e promozione non sono dipendenti dei teatri. Ergo, le giornate lavorative non esistono quasi mai. E questo aprirebbe la drammatica questione che riguarda la mancanza di tutele dei singoli lavoratori “atipici” che la comunità europea chiede di regolarizzare dal 2017.

In questo complesso scenario, tre teatri, il Ciak e il Parioli di Roma, e il Moderno di Latina, hanno deciso di presentare un ricorso al Presidente della Repubblica per chiedere che i finanziamenti siano estesi a tutti i teatri.
Sulle motivazioni di un simile atto, ci ha risposto il direttore artistico del teatro Parioli  Nanni Venditti: “Abbiamo aspettato fino all’ultimo giorno utile prima della scadenza dei termini per depositare il ricorso, perché confidavamo in un’azione unitaria delle associazioni di categoria, e speravamo che le istituzioni ampliassero la platea dei beneficiari. Non ci sembrava possibile che il Ministero finanziasse 71 teatri, quando nel ristoro “a pioggia” di aprile ne ha aiutati (con 10mila euro) oltre 600.
La decisione estrema di rivolgersi al Presidente della Repubblica ci è sembrata, purtroppo, inevitabile. Confidiamo ancora nella possibilità di poter instaurare un’interlocuzione diretta col Ministero, magari con il sostegno anche delle tante associazioni di categoria.
Siamo certi, infatti, che lo scopo delle istituzioni sia tutelare tutti: il decreto contro cui ricorriamo si può ancora correggere, allargando la platea dei beneficiari e aumentando la dotazione economica. Se arrivassero dei segnali importanti di solidarietà e inclusione, finalizzati all’erogazione di un aiuto orizzontale e equo anche per gli esclusi, – prosegue Venditti – agiremmo a nostra volta nell’interesse della categoria intera.
Lei mi chiede come mai siamo solo in tre. Noi eravamo pronti e abbiamo depositato il ricorso prima che scadessero i termini. Stiamo però raccogliendo adesioni di solidarietà all’indirizzo mail classactionteatri@gmail.com, e ci hanno già scritto moltissime strutture da tutta l’Italia. Alcuni di questi teatri hanno 700 posti, e non sono riusciti ad accedere al ristoro. Stiamo preparando un documento, auspicabilmente firmato da moltissimi gestori, con cui faremo un ulteriore, accorato appello al Ministro”.

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Abbiamo sentito anche Felice Della Corte, presidente di UTR (Unione teatri di Roma), associazione alla quale appartengono i tre teatri firmatari dell’esposto: “Il provvedimento ha delle pecche, ma è la prima volta che il Ministero, dopo molto tempo, si è accorto dell’esistenza dei teatri. Il problema è che non solo avvantaggia pochi, ma gli esclusi non hanno neanche la possibilità di rivolgersi a un mercato che non c’è, visto che siamo chiusi. Non dico che il ministero abbia sbagliato: il finanziamento del 100% è giusto ma, proprio perché è giusto, va esteso a tutti gli altri.
Tre dei miei associati hanno fatto ricorso. Sono liberi di farlo, ma noi di UTR non approviamo, perché siamo dell’idea che, in una situazione di questo genere, è più costruttivo un dialogo”.

Parlando di teatro, abbiamo sentito l’Agis, che dovrebbe essere lo strumento di dialogo del settore spettacolo con le istituzioni. Ci ha risposto Massimo Arcangeli, segretario generale Agis-Anec Lazio: “Il finanziamento di 14 milioni di euro è una porzione di un intervento più grande a sostegno di cinema e teatro. Ci sono ancora circa 600 milioni che devono essere distribuiti. Una manovra che interviene su 70 teatri e ne lascia fuori altri 700 presenta senza dubbio delle criticità, ma stiamo cercando di farle correggere. È pur vero, però, che è la prima volta che c’è un intervento nei confronti del sistema teatrale privato, perché normalmente gli interventi riguardano il segmento pubblico. Sicuramente non ci possono essere figli e figliastri, soprattutto in un momento così delicato, ma anche gli operatori del settore devono farsi un esame di coscienza: le divisioni, i contrasti, le gelosie, indeboliscono la tutela del sistema. Per mettere attorno a un tavolo la rappresentanza del teatro, devi coinvolgere 25 sigle. Alla fine ognuno cerca di salvaguardare il proprio orticello, non si fa una politica di sistema e si diventa più deboli nei confronti della politica. Nel settore teatro c’è una divisione e una litigiosità fuori dal comune, che in questi decenni ha messo il sistema teatrale ai margini”.

Un gesto di protesta contro il finanziamento dei 71 teatri è arrivato proprio da uno dei teatri che ne hanno beneficiato, il teatro Vascello di Roma. Ne abbiamo parlato con il direttore amministrativo Marco Ciuti che, insieme a Manuela Kustermann, direttore artistico del Vascello, hanno scritto al direttore generale del Mibact, rinunciando al ristoro. “per un senso civico e morale”: “ Abbiamo rinunciato perché 70 teatri non sono rappresentativi, perché non condividiamo i criteri di assegnazione e per la disuguaglianza nella distribuzione, che vede riconoscere fino a 800mila euro a realtà chiuse da mesi mentre teatri importanti sono stati esclusi. Non solo, ma riconoscere il 100% del mancato incasso ai teatri, significa non sapere che poco più del 20% dell’incasso copre i costi del teatro, perché il resto va alle compagnie che vengono ospitate e che hanno prodotto lo spettacolo che va in scena. Dare tutto ai teatri – aggiunge Ciuti – vuol dire dare loro anche quella parte che dovrebbe andare alle produzioni, lasciando fuori le compagnie. Ci sono soggetti che hanno speso fino a 200mila euro per allestire spettacoli che non sono andati in scena a causa delle chiusure dei teatri. Il Vascello è sia teatro che centro di produzione e, dei 14 milioni, ci avevano assegnato 2.700 euro senza che avessimo presentato alcuna domanda. Non sono contro il finanziamento, ma c’è una disuguaglianza impressionante. Sono rimasti fuori teatri del calibro dell’Elfo di Milano. È stato uno schiaffo. Un ministro che gestisce questi soldi dovrebbe farsi consigliare meglio e non avere fretta, per una scadenza quasi elettorale, di far vedere che si sta facendo qualcosa per il teatro. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un’azione che ci sembrava decorosa nel rispetto di tutti quei teatri che sono stati esclusi”.

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