di Giuseppe Costigliola
A volte le parole, le frasi, scavallano la retorica che le ammanta e s’incarnano in pura verità. È quel che accade per Gianrico Tedeschi, quando si dice che ha attraversato da protagonista un secolo di vita, lasciando dietro di sé un commosso ricordo, uno straordinario insegnamento artistico e umano. Sì, il grande attore milanese ci ha lasciato, alla veneranda età di cento anni e tre mesi.
Non è semplice ricordare un personaggio simile, celebrare un uomo che ha vissuto la vita, l’arte, con straordinaria pienezza, con slancio meravigliosamente fanciullesco e immutata passione, mantenendosi fedele a principi etici e civili maturati in anni inclementi. Perché ripercorrere la parabola esistenziale di Tedeschi significa ripercorrere la biografia d’una nazione, rileggere la storia degli ultimi cento anni.
Pensate, Gianrico aveva cinque anni quando l’italico tiranno assassinava il Parlamento e incarcerava per un ventennio la democrazia, diciotto quando vennero promulgate le infami leggi razziali e venticinque quando il sanguinoso secondo conflitto mondiale ebbe termine. Solo allora, forte di un’irripetibile esperienza umana, Tedeschi entrò nel mondo del teatro, in pratica per non uscirne più.
Appena ventenne, fu arruolato come sottotenente e spedito a combattere sul fronte greco. Nel 1943, catturato dai tedeschi, oppose il suo rifiuto alla Repubblica di Salò e venne internato nei campi di Beniaminovo e Sandbostel in Polonia, e a Wietzendorf in Germania, dove trascorse due lunghi, durissimi anni. Sono i lager descritti in Diario clandestino da Giovanni Guareschi, che con Tedeschi condivideva un letto a castello. “Il nostro modo di resistere era metter su spettacolini”, racconterà poi. All’epoca Gianrico sognava il teatro, frequentato sin da bambino insieme al papà, che amava l’arte scenica. Una passione lenta a prendere fuoco, che si accende una sera, quando al Teatro Dal Verme della sua Milano per la prima volta vede Ermete Zacconi recitare negli Spettri di Ibsen. Per resistere alla fame, alla paura e agli stenti, imparando le parti sui libri che lui e gli altri internati si erano portati dietro, Gianrico recitava proprio quel dramma, e L’uomo dal fiore in bocca e l’Enrico IV dell’amato Pirandello. Quest’ultimo (ripreso anni e anni dopo, nel 1994, come a chiudere un cerchio), con quel magico, continuo fluire tra realtà e finzione, dovette aiutarlo non poco in quell’esperienza durissima, prima della liberazione operata da un contingente di scozzesi, “che arrivarono in sottana con le cornamuse”. Recitazioni che erano veri e propri atti di resistenza culturale, posti in essere insieme a intellettuali e artisti compagni di prigionia (Enzo de Bernard, Enzo Paci, Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Novello, Roberto Rebora), con i quali maturava come uomo e come cittadino, approfondendo una coscienza umana, politica e artistica: “La prigionia mi ha dato il senso della comunità e l’idea che il teatro parli della società criticandola, mostrando il marcio con ironia, con la fiducia che si può cambiare, c’è sempre una via di riscatto”.
Chi volesse approfondire questi ed altri ricordi, nutrirsi di preziosissime memorie e gustosissimi aneddoti, può leggere la splendida biografia in forma di dialogo scritta dalla figlia Enrica, corredata da un’intervista all’altra centenaria collega di Gianrico, Franca Valeri: Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi (Viella editore). E su Rai Play si può visionare un denso documentario a lui dedicato, con interessanti testimonianze di amici e colleghi.
L’esperienza della guerra ed il teatro sono dunque indissolubilmente legati nella vita di Tedeschi, che ha sempre dichiarato: “Sono diventato attore perché sono stato in campo di concentramento”. Così, dopo il conflitto decise di abbandonare il lavoro di maestro di scuola per iscriversi all’Accademia nazionale d’arte drammatica, una consapevole fusione della propria identità con quell’arte, che sarà sua per settant’anni, dal 1947, quando venne scelto e diretto da Strehler, sino al 2016, con l’ultima recita in Dipartita finale, dove appare con l’immutato entusiasmo del giovinotto che è sempre stato: “Ho 96 anni e mi diverto ancora a recitare” dichiarò.
Era un tema, quello di quel dramma, in cui si riconosceva: la solitudine dell’anziano. L’aveva già affrontato qualche anno prima, nel ruolo di un vecchio partigiano nello struggente Farà giorno, con la regia di Piero Maccarinelli, e in Le ultime lune di Furio Bordon (già cavallo di battaglia di Marcello Mastroianni), che portò in scena a ottant’anni anche nel teatro parrocchiale di via Redi a Milano, dove, ragazzino, aveva mosso i primi passi da attore.
Difficile ripercorrere in poche note la lunghissima carriera di Gianrico Tedeschi, segnata da una versatilità prodigiosa, da una coinvolgente carica umana, dal garbo, dalla levità e dall’umiltà, qualità che promanavano dal viso dolce e mobile, dagli occhi sempre accesi di una sapida ironia, dal fisico agile e flessuoso, e che bucavano il velo che separa la scena dallo spettatore, lo schermo televisivo e quello cinematografico.
Tedeschi è stato forse il primo attore postmoderno, con quella sua straordinaria abilità nel mescolare stili e generi, l’alto e il basso, il classico e il popolare: tragico, comico, epico, dramma naturalistico, teatro astratto e leggero, musical, operetta, farsa, varietà, cabaret, show e sceneggiati televisivi, pubblicità, pellicole d’ogni genere: non c’è aspetto nel variegato mondo della rappresentazione scenica e filmica che Tedeschi non abbia frequentato, con immutato successo di critica e di pubblico. Un attore (e ottimo doppiatore, tra gli altri ha prestato la voce a Walter Matthau nei film È ricca la sposo e l’ammazzo e Appartamento al Plaza) provvisto di capacità di canto, di ballo e di sensibilità musicale, a suo agio con i testi dei drammaturghi e commediografi greci, di Shakespeare (memorabile il suo Shylock), Ben Johnson, Goldoni, Ruzante, Molière, Gogol, Dostoevskij, Cechov, Pirandello, Brecht, Pinter, Keiser, Brancati, Primo Levi, Thomas Bernhard, Testoni (e ci fermiamo qui), che ha lavorato con tutti i mostri sacri del teatro e del cinema italiano, attori e registi (troppi per enumerarli).
Forse come pendant d’una vita così ricca ed effervescente, da qualche anno questo testimone del Novecento si era ritirato nella sua casa in pietra ricavata dall’ex canonica d’una chiesa di un minuto borgo immerso fra i boschi, nei pressi del Lago d’Orta, dove ha trascorso serenamente l’ultimo atto della sua straordinaria esistenza, immerso nell’immenso bagaglio dei ricordi accumulati in un secolo ricchissimo, in compagnia della seconda moglie, l’attrice Marianella Laszlo, conosciuta nel 1968 sulle scene delle Nuvole di Aristofane, e della sua spiritualità coltivata nel tempo.
Il teatro gli mancava – e come potrebbe essere altrimenti? Se non il fisico, lo spirito indomito non l’ha abbandonato sino all’ultimo respiro. E lucido lo è stato fino in fondo: vedendo un tizio ossessivamente presente in tv, ha chiesto alla moglie chi fosse. Lei glielo ha spiegato, al che Gianrico ha commentato: “L’è un bel pistola”. Quel tizio era Salvini.
Ci immaginiamo che se ne sia andato, scivolando con stupore in quel tempo sospeso e straniato che avvolge le persone molto anziane, con l’immagine della casa a ringhiera col bagno esterno di via San Gregorio n. 3, “dove si studiava e si mangiava tutto nello stesso tavolo”, e dove “sono diventato un sognatore”.
Addio, Gianrico, che la terra ti sia lieve.