di Giuseppe Costigliola
Oggi 20 aprile il grande attore Gianrico Tedeschi raggiunge il secolo di vita. È emozionante festeggiare il compleanno di questo fantastico artista, una ricorrenza che, in un momento così difficile, offre l’occasione di rileggere la storia degli ultimi cento anni e di ripercorrere le nostre radici, celebrando un uomo che questo scorcio di tempo ha vissuto con straordinaria pienezza, con slancio e immutata passione per la vita e l’arte, mantenendosi fedele a principi etici e civili maturati in anni inclementi.
Pensate, Gianrico aveva cinque anni quando l’italico tiranno assassinava il Parlamento e incarcerava per un ventennio la democrazia, diciotto quando vennero promulgate le infami leggi razziali e venticinque quando il sanguinoso secondo conflitto mondiale ebbe termine. Solo allora, forte di un’irripetibile esperienza umana, Tedeschi entrò nel mondo del teatro, in pratica per non uscirne più.
Disse no alla Repubblica di Salò
Appena ventenne, diplomato alle magistrali, Gianrico fu arruolato come sottotenente e spedito a combattere sul fronte greco. Nel 1943, catturato dai tedeschi, oppose il suo rifiuto alla Repubblica di Salò e venne internato nei campi di Beniaminovo e Sandbostel in Polonia, e a Wietzendorf in Germania, dove trascorse due lunghi, durissimi anni. Sono i lager descritti in Diario clandestino da Giovanni Guareschi, che con Tedeschi condivideva un letto a castello. “Il nostro modo di resistere era metter su spettacolini”, racconterà poi. All’epoca Gianrico sognava il teatro, frequentato sin da bambino poiché il papà lo amava. Una passione lenta a prendere fuoco, che si accende una sera, quando al Teatro Dal Verme della sua Milano per la prima volta vede Ermete Zacconi recitare negli Spettri di Ibsen. Per resistere alla fame, alla paura e agli stenti, imparando le parti sui libri che lui e gli altri internati si erano portati dietro, Gianrico recitava proprio quel dramma, L’uomo dal fiore in bocca e l’Enrico IV dell’amato Pirandello. Quest’ultimo (ripreso anni e anni dopo, nel 1994, come a chiudere un cerchio), con quel magico, continuo fluire tra realtà e finzione, dovette aiutarlo non poco in quell’esperienza durissima, prima della liberazione operata da un contingente di scozzesi, “che arrivarono in sottana con le cornamuse”.
Recitazioni che erano veri e propri atti di resistenza culturale, posti in essere insieme a intellettuali e artisti compagni di prigionia (Enzo de Bernard, Enzo Paci, Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Novello, Roberto Rebora), con i quali maturava come uomo e come cittadino, approfondendo una coscienza umana, politica e artistica: “La prigionia mi ha dato il senso della comunità e l’idea che il teatro parli della società criticandola, mostrando il marcio con ironia, con la fiducia che si può cambiare, c’è sempre una via di riscatto”.
Per chi volesse approfondire questi ed altri ricordi, nutrirsi di preziosissime memorie e gustosissimi aneddoti, c’è la splendida biografia in forma di dialogo scritta dalla figlia Enrica, corredata da un’intervista all’altra quasi centenaria collega di Gianrico, Franca Valeri: Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi (Viella editore). E su Rai Play si può visionare un denso documentario a lui dedicato, con interessanti testimonianze di amici e colleghi (Rai 5).
Guerra e teatro
L’esperienza della guerra ed il teatro sono dunque indissolubilmente legati nella vita di Tedeschi, che ha sempre dichiarato “Sono diventato attore perché sono stato in campo di concentramento”. Così, dopo il conflitto decise di abbandonare il lavoro di maestro di scuola per iscriversi all’Accademia nazionale d’arte drammatica, una consapevole fusione della propria identità con quell’arte, che sarà sua per settant’anni, dal 1947, quando venne scelto e diretto da Strehler, sino al 2016, con l’ultima recita in Dipartita finale, dove appare con l’immutato entusiasmo del giovinotto che è sempre stato: “Ho 96 anni e mi diverto ancora a recitare” dichiarò. Lo spettacolo, diretto da Franco Branciaroli, vedeva con lui Massimo Popolizio e Ugo Pagliai, che così lo descrisse: “Ha ancora una voce squillante, e indubbiamente è quello che si muove più di tutti in scena. È la tipica espressione beckettiana di un essere umano, dice delle frasi astratte con uno sguardo così disperato e così pieno di vita che è una cosa meravigliosa. È piegato su se stesso, ma nonostante questo c’è una fiamma dentro di lui che è difficilissimo spegnere. È un’energia pazzesca, e io me la godo un po’ ogni sera”.
Era un tema, quello di quel dramma, in cui si riconosceva: la solitudine dell’anziano. L’aveva già affrontato qualche anno prima, nel ruolo di un vecchio partigiano nello struggente Farà giorno, con la regia di Piero Maccarinelli, e in Le ultime lune di Furio Bordon (già cavallo di battaglia di Marcello Mastroianni), che portò in scena a ottant’anni anche nel teatro parrocchiale di via Redi a Milano, dove, ragazzino, aveva mosso i primi passi da attore.
Difficile ripercorrere in poche note la lunghissima carriera di Gianrico Tedeschi, segnata da una versatilità prodigiosa, da una coinvolgente carica umana, dal garbo, dalla levità e dall’umiltà, qualità che promanano dal viso dolce e mobile, dagli occhi sempre accesi di una sapida ironia, dal fisico agile e flessuoso, e che bucavano il velo che separa la scena dallo spettatore, lo schermo televisivo e quello cinematografico.
Mescolare il classico e il popolare: il primo attore postmoderno
Tedeschi è stato forse il primo attore postmoderno, con quella sua straordinaria abilità nel mescolare stili e generi, l’alto e il basso, il classico e il popolare: tragico, comico, epico, dramma naturalistico, teatro astratto e leggero, musical, operetta, farsa, varietà, cabaret, show e sceneggiati televisivi, pubblicità, pellicole d’ogni genere: non c’è aspetto nel variegato mondo della rappresentazione scenica e filmica che Tedeschi non abbia frequentato, con immutato successo di critica e di pubblico. Un attore (e ottimo doppiatore, tra gli altri ha prestato la voce a Walter Matthau nei film È ricca la sposo e l’ammazzo e Appartamento al Plaza) provvisto di capacità di canto e di sensibilità musicale, a suo agio con i testi dei drammaturghi e commediografi greci, di Shakespeare (memorabile il suo Shylock), Ben Johnson, Goldoni, Ruzante, Molière, Gogol, Dostoevskij, Cechov, Pirandello, Brecht, Pinter, Keiser, Brancati, Primo Levi, Thomas Bernhard, Testoni (e ci fermiamo qui), che ha lavorato con tutti i mostri sacri del teatro e del cinema italiano, attori e registi (troppi per enumerarli).
Nella casa in pietra
Da qualche anno questo straordinario testimone del Novecento si è ritirato nella sua casa in pietra ricavata dall’ex canonica d’una chiesa di un minuto borgo immerso fra i boschi, nei pressi del Lago d’Orta, dove vive serenamente, immerso nell’immenso bagaglio dei ricordi accumulati in un secolo ricchissimo, in compagnia della seconda moglie, l’attrice Marianella Laszlo, conosciuta nel 1968 sulle scene delle Nuvole di Aristofane, e della sua spiritualità coltivata nel tempo. Che conservi sprazzi di invidiabile lucidità lo testimonia un aneddoto risalente a qualche tempo fa, raccontato dalla sua signora. Vedendo un tizio ossessivamente presente in tv, le ha chiesto chi fosse. Lei glielo ha spiegato, al che Gianrico ha commentato: “L’è un bel pistola”. Quel tizio era Salvini.
Sarà un mesto compleanno, vista l’emergenza che stiamo vivendo, le figlie Enrica e Sveva e i nipoti non potranno festeggiarlo, ma idealmente gli giungeranno gli auguri di tutti gli amanti dell’arte e della vita, che lui ha saputo così splendidamente onorare. E magari, scivolando con stupore in quel tempo sospeso e straniato che avvolge le persone molto anziane, si ritroverà nella casa a ringhiera col bagno esterno di via San Gregorio n. 3, “dove si studiava e si mangiava tutto nello stesso tavolo”, e dove “sono diventato un sognatore”. Auguri, Gianrico.