Raffaella Morelli: «”Femminista” è diventata una parolaccia mentre i femminicidi continuano»

Torna a teatro “Tosca e le altre due” di Franca Valeri. La regista, sceneggiatrice e autrice: «Da attivista invito cantanti, sportivi e personaggi tv gay a dichiararsi, aiuterebbero tutti»

Raffaella Morelli: «”Femminista” è diventata una parolaccia mentre i femminicidi continuano»
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11 Gennaio 2020 - 10.41


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Da Wondernet magazine diretto da Laura Saltari riceviamo e volentieri pubblichiamo la versione completa di un’intervista a Raffaella Morelli (clicca qui per la versione sul magazine di moda e costume).

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Alessia De Antoniis

Raffaella Morelli vive tra Roma, Parigi e Milano. Giornalista, a 17 anni fa già parte della redazione di Quotidiano Donna, il primo quotidiano femminista dell’epoca. Laureata in lettere, collabora con La Domenica del Corriere, Rai e RadioRai. Studia regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma a Cinecittà. Sceneggiatrice, regista, autrice, docente di cinema all’università La Sorbonne di Parigi, dedica la sua vita alla diffusione della cultura e alle battaglie civili. Fino al 12 gennaio è al teatro Belli di Roma con “Tosca e le altre due”, una commedia di Franca Valeri, l’attrice, sceneggiatrice e regista che il 31 luglio di quest’anno compirà 100 anni.

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Debuttiamo in prima nazionale al teatro Belli di Roma con Tosca e altre due dove restiamo fino al 12 gennaio. È una delle commedie più amate di Franca È una delle commedie più amate di Franca Valeri, che non va in scena da tanti anni, e che riproponiamo in occasione del compleanno di questa grandissima attrice italiana che compirà cento anni il 31 luglio. È il nostro modo di farle gli auguri.
La storia, portata in scena per la prima volta al teatro Valle nel 1986, è ispirata dall’opera lirica “Tosca” di Giacomo Puccini. Franca Valeri ha immaginato un’opera dentro l’opera, un racconto ironico che si svolge nella portineria di Palazzo Farnese dove, nel corso di una lunga notte, facevano amicizia la custode Emilia e Iride, moglie del boia. Una coppia sui generis che spia e origlia mentre al piano nobile si consuma la tragedia della cantante Tosca e del suo amante, il pittore Cavaradossi. In questo scenario le due donne parteggiano accanitamente, l’una per il cattivo barone Scarpia e l’altra per la sventurata Tosca. È una commedia, acuta, colta e divertente.

Chi sono le “altre due”?
Sono le brevissime attrici e doppiatrici Cinzia Massironi ed Elisabetta Spinelli.

Perché hai scelto questa commedia?
Franca Valeri è stata importante per quelli della mia generazione. Noi siamo quelli nati con la televisione in bianco e nero e Franca Valeri partecipava alle trasmissioni del sabato sera, faceva le imitazioni delle segretarie, delle sartine, delle signore bene. Aveva sempre quest’umorismo graffiante, colto. La abbiamo amata anche a teatro. La vidi nel 1986 al Valle di Roma che portava in scena proprio quest’opera insieme ad Adriana Asti.
Fu che mia madre mi trascinò a vedere questa Tosca e temevo fosse un suo inganno per portarmi a vedere l’opera. Sono un’appassionata di jazz e non amo l’opera. Quando ho visto entrare Franca Valeri in portineria e sentirla dire che era la portinaia di palazzo Farnese mi sono divertita e ho iniziato ad apprezzare anche l’opera di Puccini che si sente in sottofondo.

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Vivendo tra Roma e Parigi e lavorando tra cinema e teatro, hai un punto di osservazione privilegiato. Che differenza ci sono oggi tra i due sistemi?
I francesi considerano il cinema sia una forma d’arte che una voce nel bilancio nazionale, per cui investono in cinema, così come investono in ogni altra forma di cultura. Ci sono aiuti importanti per aiutare la cinematografia francese, il teatro, le scuole di formazione artistica, più che in Italia. Non è che hanno più soldi, ma hanno strutturato la distribuzione delle loro finanze in modo diverso. Credono nella cultura più di noi.
In Italia, da sempre, se dici che fai l’attrice, ti chiedono: sì, ma per vivere cosa fai? Qui ancora oggi, se non sei Margherita Buy, fare l’attrice non è un mestiere. In Francia è un lavoro come tutti gli altri. C’è un sistema di finanziamenti che permette alla Francia di fare cultura. Il teatro italiano, poi, è in una situazione ancora peggiore: è tutto sulle spalle degli autori e degli artisti. Facciamo spettacoli dove noi mettiamo i soldi. Non incassiamo con i biglietti e continuiamo a fare spettacoli. In Francia gli artisti, quando non lavorano, ricevono sussidi in base alle ore lavorate l’anno prima.
In Francia uno spettacolo, anche piccolo, sta in un teatro circa tre mesi. A Roma, i più fortunati, sei giorni, anche in teatri nazionali. Poi ci sono le eccezioni, ma questa è la media. Uno non rientra neanche dei costi.

E dal lato della formazione?
A Roma abbiamo il Centro Sperimentale di Cinematografia fondato nel 1937, insieme a Cinecittà, da dove sono usciti grandissimi attori, registi, sceneggiatori, costumisti, tecnici del cinema italiano. Noi abbiamo una buona formazione, che non manca, mancano i fondi statali che aiutino.

Come vedi la realtà italiana attuale?
In questi ultimi anni abbiamo dato al cinema grandi registi come Garrone, Sorrentino, Ozpeteck. Moretti in Francia è considerato come Woody Allen.
Ci sono giovani leve effervescenti che si interrogano sulla politica, sui conflitti, su varie realtà sociali, sull’immigrazione, sull’omosessualità. È un teatro che pulsa. Ma la maggior parte dei distributori teatrali vuole prima vedere il video. Quindi distribuisci uno spettacolo già fatto, per il quale ho già sostenuto costi e tu non rischi nulla. Questo non è un modo per aiutare il teatro.
A Roma mi ha colpito una nuova realtà teatrale, l’OffOff Theatre, un vero spazio di libertà. Silvano Spada, il direttore artistico, ha avuto il coraggio, in un momento in cui teatri chiudono, di creare uno spazio interdisciplinare ed interculturale, affrontando una scommessa che molti davano per persa. Riescono a portare gente di ogni età e formazione a teatro, forse anche grazie al fatto che non hanno paura di accogliere spettacoli che altri teatri non sono disposti ad ospitare.

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Lotti da anni per i diritti civili. Trovi che Roma sia una città accogliente?
Ho il privilegio di vivere in un ambiente artistico. Da quando ho vent’anni milito in ambienti femministi, in organizzazioni per i diritti civili degli omosessuali e non l’ho mai nascosto. Sono militante sia qui che in Francia. Sono fortunata perché ho sempre vissuto in ambienti più aperti. Credo però che ci sia ancora da fare un grande lavoro. Non solo a Roma. Ecco perché invito le persone più in vista, che hanno avuto successo, che non hanno niente da perdere, a dichiarare la loro omosessualità, perché questo aiuta gli altri.
Ci sono cantanti, sportivi, personalità della televisione, che hanno un grande seguito e che continuano a far finta di essere eterosessuali. Le mentalità si cambiano facendo conoscere le cose. La gente ha paura di quello che non conosce. L’unico modo per abbattere le paure è mischiare le persone. Il melting pot è l’unica risposta al razzismo. Invito quelli che hanno potere, successo e visibilità a dichiararsi.

Da attivista del movimento femminista, non vedi un certo fallimento?
Ero molto giovane quando a Roma ho iniziato le mie battaglie. Non mi sono battuta per il divorzio perché non era la mia generazione. L’ha fatto mia madre. Ma mi sono battuta per l’aborto, per la legge sulla violenza sessuale, per i diritti civili; in Francia ho lottato per far passare la legge sul matrimonio omosessuale. Sono contenta che in Italia sia passata la legge sulle unioni civili. Ma quando da giovane militavo nel movimento femminista e scrivevo per Quotidiano Donna, le anziane del movimento avevano un atteggiamento sbagliato nei confronti delle giovani. Invece di formare nuove generazioni, dicevano “ma questo noi lo abbiamo fatto ai nostri tempi”. Avevano già fatto tutto e non c’era spazio per altro, come se il lavoro fosse concluso. Questo è stato un errore di visione storica.
Mi dispiace vedere che oggi, in Italia come in Francia, se dici che sei femminista, ti guardano con orrore. È diventata una parolaccia, mentre per noi era un onore esserlo. Vuol dire che c’è un problema.
I femminicidi, ad esempio, non sono un problema solo italiano, ci sono anche in Francia. Alla mia epoca ci siamo battuti anche contro il delitto d’onore, abolito solo nel 1981, eppure non ricordo ci fossero così tante aggressioni contro le donne. E non diamo la colpa agli immigrati, perché gli uomini maltrattanti molto spesso sono italiani. Un mio amico napoletano, al quale hanno cavato un occhio, è stato aggredito da napoletani. Il problema è trasversale.

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