«A Lampedusa il 6 luglio scorso ho assistito a una scena orribile: un padre con bambino prendeva in giro i migranti sbarcati dalla nave Mediterranea perché non erano abbastanza magri e moribondi. È stato difficile trattenersi nel vedere un padre che insegna al figlio l’ingiuria verso chi è debole e fragile. Spero che l’immagine di un naufrago che si chiamava Odisseo apra il cuore». Chi rievoca quel momento umanamente difficile è Giuseppe Cederna, attore tra i più capaci, colti e più dotati di curiosità verso i viaggi, verso altre pesone, altre culture.
Cederna mercoledì 18 dicembre Giornata Internazionale del Migrante porta la sua performance Odisseo il migrante, tratta dal poema omerico, nella Curia Iulia nel Foro Romano per un appuntamento con inizio alle 16.30, a ingresso gratuito, voluto dal direttore del Parco archeologico del Colosseo Alfonsina Russo e realizzato insieme ad Electa.
Dapprima viene proiettato il cortometraggio Amira di Luca Lepone, tra i vincitori del bando MiBACT – MigrArti Cinema; poi la scrittrice Elena Stancanelli parla della sua esperienza sulle navi delle Ong, tra cui Mediterranea, e legge brani dal suo ultimo romanzo Venne alla spiaggia un assassino. Chiude l’incontro Giuseppe Cederna.
L’ingresso alla Curia è da Largo della Salara Vecchia, su via dei Fori Imperiali, all’altezza di Largo Corrado Ricci.
Cederna, come nasce questo spettacolo?
Innanzi tutto voglio invitare genitori a portare un figlio, è importante che i ragazzi ascoltino questa storia. Lo spettacolo è nato da una grande passione e da un’idea di Sergio Maifredi, regista ligure che propose l’Odissea integrale a puntate ad alcuni attori, da Paolo Rossi a Maddalena Crippa ad Amanda Sandrelli. Non a caso io scelsi il viaggio. È il quinto canto: l’eroe è prigioniero della ninfa meravigliosa Calipso innamorata di lui come le donne sono capaci di amare. Da anni Odisseo, o Ulisse, piange il ritorno, e finalmente gli dei con la regia di Atena decidono di liberarlo e lì cominciano le sue avventure che sono sventure. Dopo anni, e qui scatta il contatto con le drammatiche vicende dei nostri anni, arriva nudo e vinto dal mare, salvo dalla morte ma spaventato, come un migrante di tremila anni fa, arriva alle coste di un’isola alla foce di un fiume: dove l’acqua dolce e salata si mescolano prega il dio dell’acqua. La preghiera di Odisseo è la stessa con cui donne, bambini, vecchi e uomini sulle nostre coste o del mondo privilegiato chiedono di essere accolti e di sopravvivere.
Perché, almeno molti, provano compassione e partecipazione ai naufragi di Ulisse e non per i naufraghi di oggi?
Perché purtroppo stiamo perdendo quello che ci rende uomini e donne, umani, cioè la capacità di provare compassione e pietà verso chi sta peggio di noi, verso chi ha avuto un destino avverso, ha vissuto la fame, la siccità, la povertà. Recito una frase da una poesia famosissima nel web di una poetessa africana, Warsan Shire: “Dovete capire / che nessuno mette i suoi figli su una barca / a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”.
E cosa possono fare le parole di Omero?
Le parole dell’etica, dell’Egeo di Odisseo, aiutano ad avvicinarci da lontano a un dramma molto vicino. È la storia delle storie, ho recitato l’Odissea in montagna, sulla riva del mare e commuove e avvince a tutte le età. A me poi con questo testo sembra di diventare come mio padre Antonio: mi leggeva l’Odissea quando ero ragazzino, è anche un modo per farlo rivivere. Il viaggio di Odisseo è anche un viaggio verso la terra dei padri. Rivivo la voce di mio padre come tutti quei cantori, forse centinaia di migliaia, che hanno raccontato queste storie.
Come giudica la politica che dice “prima gli italiani”? La maggioranza degli italiani approva: si può reagire?
Bisogna assolutamente reagire, essere fermissimi, rimarcare che l’umanità è nata prima di noi ed è con quella che veniamo al mondo e con cui sono venute al mondo le generazioni prima di noi. Abbiamo il compito di difendere questa umanità, il senso di essere umani, di entrare nel destino degli altri. “Prima gli italiani”? Una sciocchezza anche se fa presa: prima le persone.
Ma come?
Anche un viaggiatore e scrittore come Paolo Rumiz nel suo ultimo libro cerca di capire come rispondere a questa erosione dell’umano, alla violenza, all’odio, alla paura e all’ignoranza. Non è facile rispondere al razzista e una possibilità è farlo in forma di preghiera: prego che tu non abbia da subire le cose che dici agli altri, prego che tu non abbia a provare il dolore e l’umiliazione che stai facendo patire ad altri anche solo con lo sguardo o le ingiurie o le prese in giro.
Lei affronta il tema da tempo.
Il tema dell’accoglienza è nei miei spettacoli. Da due anni porto in scena Da questa parte del mare, spettacolo nato da un disco e un libro di Gianmaria Testa. Nelle repliche questa estate ero a Lampedusa e ho assistito a un attracco. Quaranta-cinquanta naufraghi dopo giorni in mare a 45 gradi al caldo sulla nave erano una massa di carne affranta. Intorno la cosa più umana erano le ragazze e i ragazzi di Mediterranea che cercavano di tranquillizzarli, che li accompagnavano, davano coraggio a chi ha paura, dolore e ricordi orrendi. E lì ho assistito alla scena di quel padre con bambino che prendeva in giro i migranti.