Beatitudo, la scommessa vinta dal teatro nel carcere di Volterra | Giornale dello Spettacolo
Top

Beatitudo, la scommessa vinta dal teatro nel carcere di Volterra

Da 30 anni Armando Punzo, creatore, animatore e regista della Compagnia della Fortezza, porta la sua arte tra i detenuti dietro le sbarre. Quest anno con uno spettacolo bellissimo dedicato a Borges

Beatitudo, la scommessa vinta dal teatro nel carcere di Volterra
Preroll

GdS Modifica articolo

28 Luglio 2018 - 12.26


ATF

di Alessandro Agostinelli

“Beata solitudo, sola beatitudo”, scriveva quello che io chiamo Sua Lungimiranza, cioè Lucio Anneo Seneca. Vuol dire che la felice solitudine è la sola beatitudine. Chissà se lo sanno quelli della Compagnia della Fortezza, quelli che ci ostiniamo a chiamare attori-detenuti, per far capire a chi non conosce ancora questa storia, cosa accade ogni anno nel carcere di Volterra.
Accade che dopo un lavoro lungo tutto l’anno, fatto di incontri, ginnastiche fisiche e mentali, libri e poesie mandate a memoria, litigi col regista, scazzi tra un caffè e una sigaretta, un gruppo di persone si raduna in una stanzuccia del Mastio volterrano con un pazzo (che io conosco dal 1992) che si chiama Armando Punzo. E in un pomeriggio estivo, un pomeriggio fatto così e così, si dicono: “anche quest’anno si va in scena”.
Lavorano tutti i giorni, da trent’anni e passa, tra celle aperte, doppi maglioni invernali, ciabatte infradito estive, docce e dialetti di tutto il Mediterraneo, quello di sopra e quello di sotto. E ogni anno, quando noi profani saliamo la ripida ascesa al paradiso del teatro (che per un caso fortuito si trova dentro un carcere), li vorremmo maledire tutti quanti per la loro dedizione alla scena – che se anche noi avessimo la loro costanza avremmo senz’altro fatto qualcosa di meglio e in più nella nostra esistenza. E poi li vorremmo abbracciare tutti per le emozioni che sulla scena sanno dare e dire, in tante lingue del mondo, con tanti gesti di gioia e dolore mescolati assieme.
E ancora oggi, che sto uscendo da questa prigione, dopo aver ripreso il mio smartphone e lo zaino con dentro le cose che mi serviranno a scrivere questo articolo, è come se fosse la prima volta. Non perché ci sia particolare emozione a entrare ancora una volta qui, per l’ennesima volta, vale a dire in un carcere, ma soltanto perché i miei occhi hanno visto ancora il mistero dell’andare in scena per dire tante verità una appresso all’altra che quel pazzo di regista e attore e divinità tra le sbarre chiamato Armando, sa tirare fuori (la primizia di un contatto, l’accensione di una scintilla) da queste perle di attori, che navigano ogni giorno tra le spesse muraglie e le rigide e solide sbarre di questa Fortezza cinquecentesca che loro fanno diventare a volte tuono, a volte fulmine, a volte mare, a volte giaciglio e culla.
Si badi bene, non c’è in me nessuna giustificazione per il detenuto, e neppure alcuna volontà di fare la retorica controculturale di un mondo migliore senza carceri: la nostra vita è fatta anche di violenza, la nostra vita è fatta anche di pena e responsabilità.
Piuttosto mi affascina ancora oggi quello che Armando forse sa da tanto tempo e che io ho sempre intuito, ma non sono mai riuscito a dirmi e a raccontare nelle tante volte che ho scritto di Carte Blanche. E Armando lo dice bene in questo spettacolo che si intitola “Beatitudo”:
“Queste mura, a loro modo, mi proteggono da me stesso, dalla stanchezza e dagli allori. Qui ho sempre a disposizione la realtà, al massimo della sua espressione, violenta, limpida e inequivocabile”.

La scena di “Beatitudo” è una confessione costruita nel cortile principale della Fortezza, ed è già da sola un terzo dello spettacolo, del fatto che questo funzioni per tutta la durata delle sue due ore (a parte un po’ troppo lungo monologo in inglese). C’è una piscina, c’è un musicista che suona seduto davanti a un pianoforte verticale, ci sono quattro tra batteristi e percussionisti, ci sono i soldati di un esercito con i costumi da battaglia orientali, con in mano della lunghissime aste di bambù, ci sono il regista in scena e un bambino al suo fianco, entrambi con i piedi nell’acqua della piscina.
La musica suona mentre il pubblico entra e prende posto sulla tribuna o seduto su cuscini di fronte alla piscina, e si interrompe solo a spettacolo finito: è un tappeto sonoro continuo che segna il ritmo e la melodia emotiva dello spettatore. La musica è il secondo terzo dello spettacolo.
Poi ci sono le parole di Armando e quelle di Jorge Luis Borges, potenti, piene, parole che attraversano il mondo, quello di oggi e quello di ieri, le religioni quelle primitive e quelle monoteiste, le filosofie, la storia, i movimenti degli insetti e quelli delle fronde del bosco, gli eserciti che danzano e l’artista che beve la creatività dell’umanità intera, il principio e quel che c’è dopo la fine, perché alla fine forse non c’è il nulla, ma ancora – mi piace pensarlo – le parole che parlano del tutto e dell’uno di Borges, appunto. E insieme a queste parole che costruiscono il Mondo, ci sono i corpi e i costumi, i movimenti e le smorfie di sorriso degli attori, la loro presenza in scena, il loro solido icastico esserci, stare sul fronte della scena come sul ciglio di un baratro che non sappiamo quanto profondo sia, né noi né loro – possiamo solo intuirlo con le emozioni. E queste due cose sono il terzo terzo dello spettacolo.
C’è il padre in croce e Gesù Cristo (una vera prova fisica d’attore), c’è Armando-ora e Armando-ieri, ci sono gli altri registi che nuotano nel mare del senso senza conoscere il non-senso della realtà irreale del carcere, cioè senza conoscere la rappresentazione della rappresentazione irrapresentata. Ci sono le donne e ci sono i libri che sono anche gli spettacoli di trent’anni, ci sono le forme e i direttori, l’esercito degli attori e quello dei piccioni che continuano a far parte di tutti gli spettacoli, alzandosi in volo di quando in quando. E ci sono pure le bizze di qualche detenuto che non ha il permesso di uscire dalla cella e starnazza proprio quando c’è più silenzio. Ma tutto questo è spettacolo, tutto sta dentro a questo utero fluido e ricorrente di “Beatitudo”.
A chi vedesse questo lavoro pensando di assistere a uno spettacolo teatrale dico subito che questo non è uno spettacolo teatrale, o almeno non solo. È cinema, è arte contemporanea, è musica e concerto, è lettura e poesia. È Wagner e Sorrentino, è lampo e brezza. È la solitudine di tante solitudini incarcerate che il lavoro del teatro mette insieme ed erutta in un momento, come immediata percezione di bellezza.

Era il 1985. In una gelida sera di dicembre, quello che per me è un Nobel della letteratura, Jorge Luis Borges, salì le strade che lo separavano dall’inclita città di Volterra. Due giorni dopo se ne andò e poi morì. Durante la cerimonia del Premio Etruria che lo incensava, disse: “Volterra è viva e segreta, presente e lontana, fatta di pietre e respiri. Mi è parso di udire dei passi, delle voci, e dunque qualcosa di inafferrabile perdura nella città: un parlottio misterioso, un arcano trascorrere di forme, un paesaggio d’ombre”.
Per decenni, da qualche parte qui, è rimasto il suo fantasma, per resuscitare alla vita, per brulicare dentro questa beatitudine della Compagnia della Fortezza.

Native

Articoli correlati