A: “Perché Fantasia muore?” / G: “Perché la gente ha rinunciato a sperare. E dimentica i propri sogni. Così il Nulla dilaga.” / A: “Che cos’è questo Nulla?” / G: “È il vuoto che ci circonda. È la disperazione che distrugge il mondo, e io ho fatto in modo di aiutarlo (…). Perché è più facile dominare chi non crede in niente ed è questo il modo più sicuro di conquistare il potere.”
Chi è cresciuto negli anni ’80 riconoscerà subito la citazione da La storia infinita, romanzo di Michael Ende reso celebre dalla versione cinematografica di Wolfgang Petersen. Si parlava di Nulla, lo si rendeva pauroso e concreto. Oggi questo tema da racconto fantastico diventa un po’ più reale, e il Nulla non sembra appartenere al mondo di Fantasia, ma al nostro quotidiano. Perché?
Tanti, troppi, spazi a vocazione culturale stanno chiudendo. Chiudono perché le amministrazioni pubbliche non li sostengono, perché non sono agibili, perché non sono legali. Brevi comunicati, foto di smantellamenti, avvisi per fondi non garantiti e via, si butta al vento tutto il lavoro fatto per anni su un territorio, su una comunità – di artisti, teatranti, spettatori, appassionati all’arte performativa, semplicemente di curiosi sempre in cerca di nuovo, di quelle che banalmente, riducendo all’osso, potremmo chiamare “esperienze culturali”. Uno spazio-punto di riferimento che all’improvviso cessa la sua attività fa collassare un panorama, un orizzonte, una bussola speciale utilizzata da comunità di persone che si ritrovano all’improvviso senza il proprio centro aggregante, il luogo dove un tempo avveniva quella magia che le riuniva, facendole incontrare, divertire ma anche riflettere, pensare e aprirsi all’altro. Spazi di conoscenza, di incontro, di crescita.
Da diversi mesi arrivano notizie di vuoti che vanno creandosi e la lista si è allungata da qualche tempo dopo il breve comunicato lanciato dall’Associazione Vortice che dal 2003 gestisce il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia e che il 31 maggio ha chiuso: uno spazio vivo che per 13 anni è stato punto di riferimento per gli amanti di teatro, musica e danza di ricerca e del tempo presente.
Il Teatro Fondamenta Nuove ha smesso definitivamente la sua attività di programmazione per la vita culturale e aggregativa veneziana e del territorio. Questo posto – diretto dal 2003 al 2008 da Massimo Ongaro, ora al Teatro Stabile del Veneto/Teatro Nazionale, e successivamente da Enrico Bettinello, affiancato negli ultimi anni dalla collaborazione di Carlo Mangolini di Operaestate/B.motion – ha accolto giovani artisti, ha avuto il coraggio di scommettere su nascenti compagnie di teatro che solo successivamente si sono affermate al punto da aver ricevuto riconoscimenti/premi ed essere presenti nella programmazione di stagioni e festival di importanza internazionale (come per es. Babilonia Teatri, Pathosformel, Anagoor, Santasangre); ha accolto laboratori teatrali per i più giovani; ha ospitato spettacoli eclettici che travalicavano le diverse arti, facendo scoprire musica sconosciuta agli amanti di teatro e compagnie di teatro/danza agli appassionati di musica, rendendo noti degli artisti che altrimenti non si sarebbero forse mai incontrati, mettendo in circolo conoscenza; ha perseguito a suo modo una sorta di “formazione dello spettatore” senza farlo consapevolmente, senza seguire dei modelli/progetti/tecniche/strategie espliciti come quelli che sono richiesti oggi dal MiBACT.
Questo Teatro è stato anticipatore di tendenze: non parlava di “audience development”, ma concretamente è quello di cui si è occupato tra le altre cose; non parlava di “residenze creative” ma le ha sempre ospitate; non segnalava sul calendario gli incontri pubblici con le compagnie o con i registi dopo gli spettacoli, ma ne ha organizzati moltissimi estemporaneamente. E chi ha frequentato quel posto è grato per tutto questo. Forse lo stesso Tamburo di Kattrin non esisterebbe se non ci fosse stato il Teatro Fondamenta Nuove.
Quel Teatro affacciato verso il nord della laguna, più precisamente verso l’isola di San Michele, ha creato percorsi, ha fatto crescere artisti, pubblico, comunità. Ha reso la città più accogliente, più aperta al nuovo, più bella; in sintesi, ha aggiunto valore, non quantificabile secondo i parametri monetari della cosa pubblica (ma si deve per forza quantificare questo valore per far sì che la cosa pubblica vi presti attenzione?).
Il problema, si badi bene, non è esclusivamente dato dalla mancanza di soldi ma dall’assenza di una politica culturale e di progetti che sappiano coinvolgere, sviluppare e valorizzare (o almeno non distruggere) quello che ha saputo esprimere – di buono – un certo territorio negli anni. Se il Teatro Fondamenta Nuove fosse stato inserito in una programmazione culturale più solida, non basata quindi solo sulle risorse di enti locali, bensì su un progetto più ampio, a responsabilità nazionale, oppure almeno in un sistema di sostegno territoriale non occasionale, non avrebbe visto il suo fondo congelato dopo il commissariamento del Comune; soprattutto nessuna nuova giunta l’avrebbe delegato nel nulla dove se ne sta ora.
A Venezia – città che ospita la Biennale, ma anche Università come IUAV, Ca’ Foscari e Accademia di Belle Arti – il Teatro Fondamenta Nuove non è il primo spazio dedito all’arte che muore: come ben ricorda Rita Borga su KLP, la stessa sorte è già toccata al Teatro Aurora di Marghera diretto da Antonino Varvarà – altro punto di riferimento per il teatro e la danza contemporanei – e il Teatro della Murata di Mestre. Anche Venerio Rizzardi analizza la questione su Gli Stati Generali, affondando ancor di più il coltello su una ferita aperta: sottolineando come l’attenzione al turismo dilaghi, a discapito di residenti, che giorno dopo giorno diventano sempre meno e studenti universitari a cui rimangono pochi punti di riferimento dove poter effettivamente esperire ciò che studiano sui libri.
Come accennato a inizio articolo, il caso di Venezia è appunto solo l’ultimo di una lunga lista di attività culturali che non hanno più un luogo dove accadere, impoverendo il paese e i cittadini. Se la città lagunare punta al turismo, la capitale sembra stia facendo di tutto per far tabula rasa: ben denuncia la situazione l’articolo di Christian Raimo apparso su Internazionale qualche settimana fa e gli fa eco una situazione paradossale di una Roma che non solo chiude gli spazi, ma rinnega anche azioni culturali che l’amministrazione si era impegnata non dico a promuovere ma almeno a valorizzare, come l’opera Triumph and Laments di William Kentridge sul lungotevere che a breve verrà coperta dalle bancarelle dell’Estate Romana. E ci si chiede quale sia la ratio con cui un Paese viene amministrato, quali sono gli obiettivi, quali gli scopi.
Ci sono poi altri segnali preoccupanti, a cominciare dai problemi che sono sorti e stanno sorgendo dalle troppe ombre gettate dalla nuova riforma teatrale che sta mietendo già le prime vittime. Il quadro di questa situazione viene ben analizzato da Iside Moretti su Doppiozero e da Sergio Lo Gatto su Teatro e Critica, mentre Graziano Graziani su Minima et Moralia si chiede quale sia l’alternativa a questa desertificazione culturale.
Questo Paese sembra non riuscire a far patrimonio della sua storia e memoria culturale, delle situazioni che davvero permettono alla società di crescere, empatizzare con l’altro, conoscere il diverso, capire meglio il mondo assurdo in cui viviamo, accettandolo o provando a cambiarlo per renderlo più abitabile, accogliente. Se muoiono i luoghi dove si aggregano voci e pensieri, dove si mette in circolo un confronto reale, scompariranno anche tutti quei bei progetti a lungo termine che rendono migliori le città e di riflesso le stesse persone che le abitano. Le amministrazioni locali e coloro che governano l’intero Paese dovrebbero chiedersi quale sia lo scopo delle loro azioni (o non azioni), quale l’obiettivo: chiudere gli occhi di fronte ai vuoti che si creano servirà solo ad aumentare quel buco nero – invisibile ma reale – che piano piano assorbirà tutto ciò che lo ci circonda, facendo collassare un orizzonte.