Promesse | Rising Star: Gabriele Falsetta

I nuovi volti dello spettacolo italiano li trovate qui, nelle Gallery di Rising Star. E allora, questa settimana parliamo di Gabriele Falsetta

Promesse | Rising Star: Gabriele Falsetta
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9 Giugno 2016 - 11.50


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di Nicole Jallin

Ha una concezione attoriale quale carnale presenza intima, emotiva, mentale, in tensione continua con lo spettatore, Gabriele Falsetta, trentaquattrenne genovese, diplomato alla Scuola del Piccolo di Milano, riconosciuto miglior attore al 48Hours International Film Project di Roma, e Premio Rotary miglior attore Scuola del Piccolo Teatro di Milano. E ha una consapevole e feconda irrequietudine di pensiero e d’azione , oltre a un lucido spirito d’intraprendenza (anche imprenditoriale) grazie alle quali fonda insieme al fratello Jacopo la casa di produzione “Frömell Films”, ed esordisce dietro la macchina da presa prima col corto “Eleison” (proiettato a Cannes 2015), poi con “Dust, The Wanted Life”, presentato al 33° TFF: «Volevo realizzare un documentario, e su proposta della regista-coreografa Barbara Altissimo, che lavorava con un gruppo di anziani pazienti del Cottolengo di Torino, ho iniziato a girare con incredibili testimoni d’esistenza, che si esprimono con una teatralità innata e istintiva. Con pochissimi strumenti e un budget limitato, siamo andati per Torino fondendo attimi di vita reale, piena della loro spontaneità, e scene teatrali recitate, decontestualizzate e calate nella città. Ora questo corto prodotto dalla Kess Film di Giulio Baraldi sta girando tutto il mondo, e da settembre comincerò a girare una long version che avrà la struttura documentaristica di “Dust” ma con una dose di narrazione in più e una teatralità sottesa legata a “Il giardino dei ciliegi” di Čechov (da cui nascerà uno spettacolo al Teatro Astra di Torino) che penetra la realtà quotidiana. Sarà come sbirciare in un backstage dentro e fuori le prove, dentro e fuori il teatro, dentro e fuori la normalità giornaliera di questi straordinari attori».

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E se parlando di regia, Gabriele confessa una claustrofobia artistica e creativa verso il limite scenico del teatro, per una maggior sintonia prossemica all’apertura spaziale del cinema, rispetto al lavoro di attore e sull’attore, esterna il bisogno di rappresentare l’azione vitale da trasmettere attraverso il corpo emotivo dell’interprete. E come interprete (che sullo schermo si spende in “66,11” di Giulia Grandinetti, “La scuola d’estate” di Jacopo Quadri, “Eva Braun” di Simone Scafidi e “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino), si forma con, tra gli altri, Lina Bernardi, Massimo De Francovich, Valter Malosti, Laura Pasetti, Franca Nuti, Giulia Lazzarini, Luca Ronconi, e soprattutto Declan Donnellan e Fadhel Jaaibi: «In Ronconi non ho mai cercato un padre o un mentore, dunque non ho mai avuto questa pressione che in tanti subivano. Era misterioso, manteneva sempre un certo rigoroso, rigido (ma anche affascinante) distacco, il che rendeva praticamente impossibile avere un rapporto. Mi ha insegnato la lettura del testo, e questo lo porterò con me sempre, tutti i giorni. Perché saper leggere con quella profondità interpretativa è una cosa difficile e rara, ed era un suo grande dono. Ma, in scena, con lui, più che attore mi sentivo un “sintetizzatore”, un esecutore: c’era in questo senso un’idea molto distante dalla mia, se non opposta. Per me il teatro è comunicazione: “la mia priorità è la vita”, diceva Declan Donnellan. Significa parlare di vita e offrirla al pubblico. Ecco, se devo dire chi mi ha insegnato a recitare, allora faccio i nomi di Declan Donnellan e Fadhel Jaaibi: con loro ho capito cos’era per me l’arte dell’attore, il significato di stare sul palco».
Con Ronconi, Gabriele lavora in “La Celestina” di Fernando de Rojas, nello studio su “Il cuore infranto” di John Ford, ne “Il gabbiano” di Čechov, “Il ventaglio” di Goldoni, e ancora “Itaca” di Botho Strauss, “Opera Seria” del librettista e poeta Ranieri de’ Calzabigi, fino agli shakespeariani “Il mercante di Venezia” e “Sogno di una notte di mezza estate”. E il Bardo l’affronta ancora ne “La dodicesima notte” e “Amleto” di Enrico D’Amato, e nel “Giulio Cesare” di Carmelo Rifici, registi che lo sceglieranno rispettivamente per le “Rose d’autunno” di Čechov e “Il Misantropo” di Molière, e per “La rosa bianca” di Lillian Groag e “Il gatto con gli stivali” di Ludwig Tieck.

Tante le sue presenze sulla scena, da “La cimice” di Majakovskij con regia di Serena Sinigaglia, alle “Bucoliche” di Virgilio dirette da Gianfranco De Bosio, al crudo e visionario “Divine parole” di Valle-Inclán, regia di Damiano Michieletto, fino alle collaborazioni con Dante Antonelli in “Du/et” e “Esse – Santo Subito”, intorno al profilo travagliato (e spietato) del drammaturgo austriaco Warner Schwab: «Da anni leggevo e rileggevo “Sterminio” di Schwab. Poi ho incontrato Dante impegnato in una trilogia sull’autore: abbiamo iniziato a lavorare su quel testo, che è diventato “Santo Subito” (e che riprenderemo presto), e per me è stato un punto zero dove ho riscoperto il piacere e l’importanza di trasmettere emozioni senza costrizioni di forma, e ci tengo per questo a ringraziare il Collettivo SCH, Dante Antonelli e Domenico Casamassima, la scrittura di Domenico Ingenito e Francesco Tasselli e Samovar per il loro ambiente scenico e sonoro. È stato un rehab che mi ha costretto a togliermi tante sovrastrutture, tante corazze per entrare nel vivo della visione folle e autodistruttiva di Schwab: in un certo senso mi sono distrutto, ma ne sono felice perché ho scoperto la mia intimità da donare allo spettatore. Ecco, come attore credo sia necessario che il proprio privato diventi pubblico, e questo implica la grande fatica di perdere qualcosa, di mettersi in crisi costante: l’attore non dev’essere replica tecnica di se stesso, perché lì non c’è vita, non c’è onestà. Con “Santo Subito” ho ritrovato quell’urgenza, quella vertigine che per me è la recitazione».

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