Leo Gullotta: i miei 70 anni di amore per la vita

In scena con Spirito allegro di Noël Coward, l’attore celebra una carriera cominciata da giovanissimo allo Stabile di Catania e proseguita tra teatro, cinema e Tv.

Leo Gullotta: i miei 70 anni di amore per la vita
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12 Gennaio 2016 - 16.42


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di Nicole Jallin

Un compleanno speciale quello di Leo Gullotta, uno degli interpreti più amati del panorama artistico italiano, che festeggia sette decenni “ottimamente vissuti, sia nelle zone basse che in quelle alte”, come lui stesso precisa, e cinquantacinque di lavoro, cui si dedica con impegno ed entusiasmo fanciullesco: «L’attore deve conservare e far rivivere sempre il bambino che c’è in noi: per sua eccellenza, fantasia e capacità di osservazione, deve grattare il testo, alla ricerca dell’anima da offrire al pubblico».
Intanto, concluse le repliche romane all’Ambra Jovinelli, l’interprete siciliano prosegue la tournée di “Spirito allegro” diretto da Fabio Grossi (prossime tappe il Mascagni di Chiusi, poi il Duse di Bologna, il Biondo di Palermo e il Metropolitan di Catania): nota commedia dell’inglese Noël Coward datata 1941, che affronta la morte con un’eleganza arricchita qui da influssi multimediali, per un incontro divertente e divertito con gli spiritelli dell’aldilà.

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Nel suo bilancio di vita e di carriera si sente privato di qualcosa?

«No, direi di no. Forse dipende dal fatto che sono cresciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, quando non c’erano le informazioni messe a disposizione dalla tecnologia, che per fortuna oggi hanno i giovani, che alimentava la curiosità verso la vita, la voglia di scoprirla che è in me sin da quand’ero ragazzino, tanto ragazzino: talmente ragazzino che mi chiamavano “Gullottino”. Ero curioso allora e lo sono oggi, come uomo come persona, verso la vita e verso il lavoro: due cose completamente diverse che non si agganciano mai, e che continuo ad amare profondamente. No, il mio lavoro non mi ha privato assolutamente di nulla: né ieri e né oggi.

Se pensa al suo passato che immagine o ricordo le torna in mente?

«Negli anni ho incamerato lo studio, l’attenzione, il rispetto, la qualità, la professionalità, la disciplina senza sapere nulla di spettacolo: non sapevo di avere il fuoco sacro, mi ci sono ritrovato per una serie di situazioni. Ho imparato molto nei dieci anni passati allo Stabile di Catania: lì tanti insegnamenti mi hanno permesso di maturare da subito. Inoltre, per mia fortuna, ho potuto lavorare con nomi importanti come Salvo Randone, Turi Ferro, Glauco Mauri, Valeria Moricone, Franco Enriquez, e tanti, tantissimi registi, ma anche tanti, tantissimi meravigliosi professionisti più o meno noti: ognuno mi ha donato alla mia sete di crescita professionale un sano bicchiere d’acqua, ognuno mi ha permesso di capire qualcosa in più della vita e del lavoro. Quando a scuola i bambini trovano insegnanti che riescono a fargli amare una materia, poi loro quell’amore se lo porteranno nel futuro, e non lo lasceranno più».

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E oggi che cosa desidera?

«Mi reputo una persona fortunata, sono nato in una famiglia semplice ma di grande dignità, con papà operaio pasticcere, ultimo di sei figli: una classica e numerosa famiglia del sud che nonostante le difficoltà ha sempre mantenuto il sorriso, lo stesso che mantengo dentro di me, nella quotidianità: voglio sempre conservare il bambino che c’è in me. I miei genitori mi hanno insegnato e spronato a cercare le chiavi per comprendere il mio futuro, a comprendere il rispetto, la libertà, i diritti: parole semplici che fin da piccolo mi sono state messe nella testa e che poi il tempo ha fatto evolvere nella conoscenza di ciò che volevo fare nella mia esistenza. Per questo mi reputo fortunato come uomo, e mi reputo un buon artigiano dello spettacolo: ho fatto nella mia carriera cose buone, e altre a volte non proprio riuscite, ma le stringo tutte in me con grande affetto, perché ognuna è un prezioso tassello in più per la mia crescita».

Ora è in scena con “Spirito allegro”. Questa versione della commedia, di cui lei è protagonista, vanta una messinscena inedita.

«È la prima volta che in questo famosissimo testo, rappresentato anche a Londra e New York, viene introdotto, in un teatro di prosa italiano, il video-mapping. Una messinscena “moderna” che gioca con l’occhio dell’evoluzione del tempo inserendo questo elemento tecnologico che permette di rendere visibile il fantasmino che cammina sopra di noi, la casa che crolla, i piatti che volano, il tavolino che si muove senza che nessuno lo tocchi. Prima tutto ciò avveniva con dei fili, ma manca completamente la possibilità di vedere i fantasmi. Abbiamo lavorato con estremo rigore e attenzione per riproporre gli anni Quaranta attraverso le scene, i suoni delle grandi orchestre di allora, la moda di quell’upper-class inglese che anche per bere un caffè si vestiva di tutto punto (il lavoro musicale è di Germano Mazzocchetti, quello scenico di Ezio Antonelli, mentre i costumi si riconducono alla Sartoria Tirelli, ndr). E questo, in effetti non è troppo distante dall’oggi, dove ormai si tende a imporre red carpet e vestiti firmati anche per la sagra della salsiccia: ci sono cose che il tempo non cambia. Ma soprattutto, all’interno di questa commedia così elegante nel linguaggio e nel gioco degli equivoci, si fa largo una forte volontà di esorcizzare la morte, di trattarla in maniera divertita e giocosa: Coward scrive questo testo nel ’41, cioè in un momento in cui l’Inghilterra si portava dietro i parenti caduti in guerra. La platea aveva bisogno di evasione».

Oggi più che mai abbiamo bisogno di esorcizzare le paure.

«Certo. E guarda caso anche oggi siamo attorniati da morte, senza i carri armati di allora, ma con più subdoli ricatti che fanno pressione psicologica sulla paura. Questo testo, oggi, trasmette ancora quell’alleggerimento circa la morte che la gente sente il bisogno di incontrare, e insieme sfida proprio questi ricatti alla nostra libertà democraticamente conquistata. La gente viene a teatro con gioia ed esce con il sorriso, assaporando il piacere della recitazione di una commedia (una delle cose più difficili da recitare: si deve conoscere il linguaggio e la tecnica), il piacere dell’occhio e dell’orecchio. il piacere della professionalità, della precisione, del divertissement così inglese: anche questo è bellezza».

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Come regge la fatica dello stare sul palco, del mantenere alto il ritmo richiesto da questo mestiere?

«Ci sono due o tre buone medicine necessarie. Innanzitutto, per continuare a fare, dopo così tanti anni, questo lavoro lo si deve amare totalmente. Secondo, gli spettatori sono delle fondamentali iniezioni di stima e affetto che si rinnovano ogni volta. Terzo, ma non ultimo, per resistere a questo faticosissimo mestiere dell’attore serve mantenere buona la salute. Anzi, salute innanzitutto: una cosa importante che ho capito a settant’anni. Così sono sempre pronto per essere stuzzicato e coinvolto dal lavoro, pronto per darmi generosamente. Questi stimoli e medicine mi consentono di proseguire con goia. E la gioia è il pilastro portante sia della mia vita che del mio lavoro».

In questi mesi pieni di impegni lavorativi non sente il bisogno di concedersi un periodo di riposo?

«In tempi così difficili non è facile lavorare con continuità. Il sistema dello spettacolo italiano ha bisogno di guarire dalla confusione e dalle cattivissime abitudini trascinate negli ultimi trent’anni. La guarigione non sta arrivando dalle leggi né dalla politica che le fa: una politica che non viene a teatro, che non conosce il teatro, se non Gianni Letta da una parte e Fausto Bertinotti dall’altra. Si pretendono posti riservati alle “autorità”, ma poi non vengono, non ci sono quasi mai. Trovo la classe politica oggi arretrata, non vogliosa di guardare il Teatro (sia gli stabili che i privati, ognuno con le proprie esigenze, le proprie priorità produttive e di ricerca artistica) nella sua evoluzione. La politica si è infilata a piede lungo dentro i teatri, dentro i cinema, sapendo però di essere claudicante in termini di conoscenza o preparazione. Quindi se ne sta dietro, nascosta, e manovrando abbondantemente inciuci e raccomandazioni. Questo è un’infezione abbastanza radicata e molto difficile da curare».

Che speranza c’è per il futuro?

«Ci vuole più attenzione. Negli altri paesi il teatro è materia scolastica: tant’è vero che nelle università ci sono i campus con il teatro, dove i giovani mettono in scena Shakespeare, Molière, Pirandello, e molti altri. Male, questo fa molto male perché con i testi teatrali, storici e non, si parla, si cresce, si ragiona: ci aiutano a capire meglio l’uomo e la vita. E invece niente di tutto questo è recepito proprio in Italia, patria natale di grandi autori di cinema e di teatro. Mi duole il cuore sapere che oggi un attore, e un pezzo di storia della scena europea oltre che italiana, come Glauco Mauri faccia fatica a trovare dei teatri. Ma non si cerchi pessimismo nelle mie parole: il mio è un incitamento affinché le vecchie abitudini che rendono piatto questo paese possano svanire grazie alla comprensione, alla collaborazione, all’ascolto attento di chi lo spettacolo lo fa, lasciando posto alla costruzione di un percorso creativo che restituisca al pubblico l’Abitudine, con la “a” maiuscola, di tornare sempre alla genuina bellezza del teatro. La speranza per il futuro sta nelle potenzialità nelle capacità dei giovani, che ci sono, eccome se ci sono. Ma in questo paese meraviglioso si parla, si parla, e si continua a parlare, però fatti costruttivi, altra parola importante, se ne vedono troppo pochi, quasi nessuno. Quando mi invitano nelle università o nei licei, dico sempre ai ragazzi che la vita è vostra, non degli altri. Quindi credete ai vostri sogni e alle vostre voglie, al vostro studio e alla vostra crescita: cercate di vederli come una realtà pronta a essere acchiappata. Dovete lavorare, però. Dovete faticare e dovete crescere. Non esiste soltanto l’apparire: apparire è un po’ morire».

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