Tra Logos e Pathos nell’Antigone di Filippo Gili

La compagnia Uffici Teatrali in scena, fino al 6 dicembre, al Teatro dell’Orologio di Roma con la tragedia di Sofocle che scava l’anima. [Nicole Jallin]

Tra Logos e Pathos nell’Antigone di Filippo Gili
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27 Novembre 2015 - 17.00


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di Nicole Jallin

La riflessione profonda, densa, esplorativa che caratterizza la teatralità e la scrittura drammaturgica e registica di Filippo Gili si rivolge alla narrazione mitologica sofoclea per toccarne le corde più intime e nascoste dell’animo, dell’istinto e della ratio umana. E lo fa con uno spettacolo lacerante per collettiva sintonia recitativa che adagia su parola antica espressività contemporanea; ammaliante, per analisi spirituale e cerebrale, sensoriale e linguistica sui personaggi; tagliente per messinscena minimalista scolpita da gioco plastico di luci e ombre, e restituita da due lignei piani di lavoro fissati a tiranti dall’alto e dal basso: l’uno, banco di prova artigiana del Coro, concentrato nella coppia di pacati cuoiai (d’accento emiliano) Omar Sandrini e Alessandro Federico, conciatori di pellame e tessitori dialoganti di commenti. L’altro, corredato di quaderno/registro burocratico di Creonte-Gili, è trono di potere maschile espresso nella rigidità di regole e ordini tutori della comunità statale.

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La scena, protratta virtualmente oltre il pubblico e le quinte, è il luogo dell’incontro privato di tempo: luogo di colloqui, con la Guardia, a cui Matteo Quinzi dona una timorosa e ironica spavalderia, che notizia il re di Tebe della trasgressione della nipote; con Emone (Piergiorgio Bellocchio), rivelatore e sfidante; con Tiresia (che qui ha fisionomia di donna, quella di Rosy Bonfiglio), la cui cecità s’e fatta paralisi su sedia rotelle, e la cui voce coscienziosa si colora di sardonica e fatale ammonizione. Ed è luogo d’azione, di ribellione irremovibile propria di una femminilità viscerale che Vanessa Scalera imprime di un’impulsività consapevolmente ardente d’affetto – vigorosamente materno verso Ismene (Barbara Ronchi) -, contorto in corpo e anima da patimento emotivo e sacrale prossimo alla follia dionisiaca.

Si consuma qui tra cuore e mente, legalità e giustizia, pensiero e sangue, Creonte e Antigone, lo scontro di impeti e sofferenze consequenziali: bloccati nella testa, quelli di lui, con bruciore di meningi ostinate nell’imporre la logica della parola politica e l’intollerante rispetto normativo; concreti e carnali, quelli di lei, segnati sulla pelle, da dentro, e accolti in pieno petto, come la morte.

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E c’è da notare come la regia spinga il dramma a superare la morte per colpire chi rimane: oltre il sacrificio del figlio che – tradendo la testualità autoriale -, per “odio al delitto paterno”, trascina il cadavere dell’amata in scena e si trafigge sul fil di spada; oltre il suicidio saputo della moglie Euridice, non resta che la condanna per l’uomo che si è svuotato colpevolmente della propria umanità (in nome della ragione): una vita spesa nel buio di silenzio e solitudine a invocare la morte.


Antigone

di Sofocle

con Vanessa Scalera, Barbara Ronchi, Omar Sandrini, Alessandro Federico, Filippo Gili, Matteo Quinzi, Piergiorgio Bellocchio, Rosy Bonfiglio, Roberto Dellara

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scene Francesco Ghisu

assistente scenografo Lorena Curti

costumi Daria Calvelli

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disegno luci Daniele Compagnone

aiuto regia Silvia Picciaia

regia Filippo Gili

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produzione Uffici teatrali

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