La riflessione profonda, densa, esplorativa che caratterizza la teatralità e la scrittura drammaturgica e registica di Filippo Gili si rivolge alla narrazione mitologica sofoclea per toccarne le corde più intime e nascoste dell’animo, dell’istinto e della ratio umana. E lo fa con uno spettacolo lacerante per collettiva sintonia recitativa che adagia su parola antica espressività contemporanea; ammaliante, per analisi spirituale e cerebrale, sensoriale e linguistica sui personaggi; tagliente per messinscena minimalista scolpita da gioco plastico di luci e ombre, e restituita da due lignei piani di lavoro fissati a tiranti dall’alto e dal basso: l’uno, banco di prova artigiana del Coro, concentrato nella coppia di pacati cuoiai (d’accento emiliano) Omar Sandrini e Alessandro Federico, conciatori di pellame e tessitori dialoganti di commenti. L’altro, corredato di quaderno/registro burocratico di Creonte-Gili, è trono di potere maschile espresso nella rigidità di regole e ordini tutori della comunità statale.
La scena, protratta virtualmente oltre il pubblico e le quinte, è il luogo dell’incontro privato di tempo: luogo di colloqui, con la Guardia, a cui Matteo Quinzi dona una timorosa e ironica spavalderia, che notizia il re di Tebe della trasgressione della nipote; con Emone (Piergiorgio Bellocchio), rivelatore e sfidante; con Tiresia (che qui ha fisionomia di donna, quella di Rosy Bonfiglio), la cui cecità s’e fatta paralisi su sedia rotelle, e la cui voce coscienziosa si colora di sardonica e fatale ammonizione. Ed è luogo d’azione, di ribellione irremovibile propria di una femminilità viscerale che Vanessa Scalera imprime di un’impulsività consapevolmente ardente d’affetto – vigorosamente materno verso Ismene (Barbara Ronchi) -, contorto in corpo e anima da patimento emotivo e sacrale prossimo alla follia dionisiaca.
Si consuma qui tra cuore e mente, legalità e giustizia, pensiero e sangue, Creonte e Antigone, lo scontro di impeti e sofferenze consequenziali: bloccati nella testa, quelli di lui, con bruciore di meningi ostinate nell’imporre la logica della parola politica e l’intollerante rispetto normativo; concreti e carnali, quelli di lei, segnati sulla pelle, da dentro, e accolti in pieno petto, come la morte.
E c’è da notare come la regia spinga il dramma a superare la morte per colpire chi rimane: oltre il sacrificio del figlio che – tradendo la testualità autoriale -, per “odio al delitto paterno”, trascina il cadavere dell’amata in scena e si trafigge sul fil di spada; oltre il suicidio saputo della moglie Euridice, non resta che la condanna per l’uomo che si è svuotato colpevolmente della propria umanità (in nome della ragione): una vita spesa nel buio di silenzio e solitudine a invocare la morte.
Antigone
di Sofocle
con Vanessa Scalera, Barbara Ronchi, Omar Sandrini, Alessandro Federico, Filippo Gili, Matteo Quinzi, Piergiorgio Bellocchio, Rosy Bonfiglio, Roberto Dellara
scene Francesco Ghisu
assistente scenografo Lorena Curti
costumi Daria Calvelli
disegno luci Daniele Compagnone
aiuto regia Silvia Picciaia
regia Filippo Gili
produzione Uffici teatrali