Attraverso quale velo guardiamo la realtà?

Velodimaya di e con Natalino Balasso è andato il scena al Teatro Goldoni di Venezia: un incredibile successo.

Attraverso quale velo guardiamo la realtà?
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29 Ottobre 2014 - 15.03


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di Chiara D’Ambros

Al Teatro Goldoni di Venezia nemmeno una poltrona libera per il debutto del nuovo spettacolo di Natalino Balasso, Velodimaya andato in scena il 25-26 ottobre. Con l’ironia e la comicità che lo contraddistingue, Balasso sale sul palco e esplicita al pubblico di tutte le età presente in sala, l’unicità della situazione teatrale che succede nel qui ed ora e richiede di essere “più o meno” ma vivi. Racconta insolitamente dell’oggi in questa pièce dopo aver raccontato nei passati spettacoli il mito greco con Ercole in Polesine, di una vicenda successa negli anni ’30 con La tosa e lo storione, dell’anno zero con l’idiota di Galilea. L’attore con la sua usuale parlata dal forte accento veneto la cui musicalità strappa la risata e talvolta favorisce il fluire della narrazione, ribadisce: “Qui ci sono io, là ci siete voi, c’è un teatro e un teatro c’è anche nella vostra testa”. La realtà che vediamo è quella che ci rappresentiamo, da cui la metafora: “Tutti nella testa abbiamo un puffo che proietta il film della realtà che vogliamo vedere”. La costruzione della realtà attraverso determinati parametri sociali dettati da chi meglio sa raccontarcela, assieme alle credenze cui siamo soggetti, sono il fulcro dei questo nuovo monologo che il comico ha scritto dopo due anni nei quali i suoi videoclip a sfondo sociale pubblicati su you tube nel canale virtuale Telebalasso, hanno spopolato oltrepassando i dieci milioni di visualizzazioni. L’attore-autore torna più volte a parlare dell’educazione citando recenti studi di neurobiologia riguardanti l’apprendimento e raccontando della sua infanzia passata tra un mondo contadino e un collegio di suore. Non mancano echi del mondo bambino raccontato da Luigi Meneghello in Libera nos a malo, quando Balasso bambino si chiede “Cos’è il peccato di accidia?” Trova come unica risposta possibile il fatto che sia una punizione per aver mangiato troppo, per cui ti viene acidità di stomaco. I bambini nascono tutti indistintamente con enormi potenzialità ma il processo di “normalizzazione” cui la società li sottopone, li limita al punto da impedire loro lo sviluppo di autonomia e consapevolezza. Vivere diventa, quindi, un assumersi il ruolo di detective per scoprire, con pochissime prove a disposizione, chi si è e se c’è un’altra realtà possibile oltre a quella che ci è stata raccontata. Troppo spesso incapaci di perseverare nel proseguo delle indagini, ci si affida alla religione spirituale o del lavoro, o a guru che “più danno risposte certe, meno sanno quello di cui stanno parlando”. Si cercano troppo spesso risposte che ci consentano di credere a quello che vogliamo credere e che anziché s-velare aggiungono veli alla realtà, talvolta addirittura teli veri e propri com’è accaduto negli Stati Uniti, nel 2003, durante il proclama dell’allora segretario di Stato Colin Powell sulla necessità dell’attacco all’Iraq per sospetto possesso di armi chimiche. In quell’occasione è stato coperto con un drappo scuro il quadro che era sullo sfondo della postazione da cui Powell annunciava la necessità dell’invasione del paese mediorientale. Il dipinto nascosto era Guernica, che Pablo Picasso realizzò dopo il bombardamento aereo della città omonima durante la guerra civile spagnola.

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I toni dello spettacolo si fanno via via più amari. Sul finale l’attore citando Oscar Wilde “Se tu dai una maschera a un uomo, costui ti dirà la verità”, indossa una storica maschera veneziana di cuoio e salendo su un pulpito si chiede “Ma qual è la verità?” e svela una verità possibile e cinica del mondo produttivo di oggi, dominato dalla legge del profitto, della prevaricazione dell’altro, dei consumi, delle relazioni alterate. Sceso dal pulpito e tolta la maschera, il palco diventa buio, solo un fascio di luce al centro lo illumina, Balasso senza più cercare la risata racconta di come un tempo eravamo come lupi forse più selvaggi ma certo più curiosi, mentre ora siamo diventati cani ammaestrati. Buio. Applausi, mentre nei pensieri di alcuni spettatori potrebbe risuonare una riflessione di S. Freud sul processo di civilizzazione: “L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”.

Partiamo dal titolo: “Velodimaya”.

Ho deciso questo titolo tra le tante cose di cui si parla nello spettacolo perché voglio partire dal punto di vista cioè non dalla realtà. Molti parlano della realtà ma io vorrei partire da un po’ prima, cioè vorrei chiedere: “quando noi guardiamo un telegiornale, ascoltiamo un radiogiornale, leggiamo un giornale, vediamo un film, cosa abbiamo capito? Questa è la domanda che mi pongo. Ecco perché Velodimaya riprendendo il concetto di Schopenhauer secondo cui la realtà non è direttamente percepibile se non attraverso sfumature che è poi la cosa che diceva Platone. Ma in questa epoca in cui sembra che tutto sia perfettamente documentato, quindi la gente pensa sia più facile accedere alla verità, alla descrizione della realtà, io credo che oggi più che in altre epoche, salta agli occhi questa cosa, ossia che ci sono molte realtà soggettive, ed è molto difficile capirsi quando si parla della realtà.
Nello spettacolo si dall’inizio si sofferma sul bambino e della sua realtà.
Il bambino è preso in considerazione quando parlo dell’educazione, che poi la cosa fondamentale, perché quello che noi facciamo è strettamente legato a quello che abbiamo imparato da piccoli. In neurobiologi ci dicono che dopo i primi tre anni è difficile che apprendiamo qualcosa di fondamentale in maniera così veloce come riusciamo a farlo nei primi tre anni. Noi però ai nostri figli nei primi tre anni non insegniamo assolutamente niente. Questo è il primo grande paradosso della nostra cultura, della nostra società. Un maya di 7 anni che vive nella giungla è autonomo, cioè è capace di costruirsi una capanna, di costruirsi il letto dove dormire, sa andare a caccia, sa campare da solo. Nella nostra società i bambini che rimangono inetti sempre più a lungo, si parla sino ai due anni, nei quali il bambino è incapace non solo di badare a se stesso ma di resistere un giorno senza presenza di adulti o di altri umani e questo tempo sembra che si dilati sempre di più. Noi siamo sempre più dipendenti da chi ci alleva, ce ne andiamo sempre più tardi da casa, insomma viviamo in un’epoca in cui si passa direttamente dall’infanzia all’età adulta, non c’è più l’adolescenza. Molte persone di 30 anni sono ancora all’infanzia. Quindi io trovo cruciale discutere di come educhiamo i bambini. Ecco perché nello spettacolo c’è una parte abbastanza consistente che parla da una parte dell’educazione pre scolastica, dall’altra dell’educazione scolastica.

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Quando dici ‘oggi’ a che ‘oggi’ ti riferisci?

Quando dico oggi intendo la civiltà informatica, cioè la civiltà che è uscita dalla rivoluzione industriale e si sta ripiegando su se stessa e non è più capace di fare molte cose, viviamo di cose già fatte, mentre quello che facciamo serve tutto alle relazioni da cui l’informatica, la tecnologia informatica. Tant’è che la diffusione dei mezzi sempre più facili da usare come gli smart phone, spinge la gente a illudersi che viviamo in una società in cui è facile dare risposte semplici a problemi complessi ecco perché trionfano gli slogan, ecco perché un politico basta che dica due cose e la gente pensa di aver capito quale sarà la sua politica. La gente non riesce più a seguire i discorsi, siamo al limite dei 140 caratteri, siamo al rischio di una semplicità d’uso del mondo ma il mondo è complesso. Dovremmo essere preparati a questo ma non lo siamo.

Questo ha un legame con il momento dello spettacolo in cui dici “siamo tutti credenti” ?

Si siamo tutti credenti, perché tutti siamo aggrappati ad un mondo metafisico. Nel racconto della realtà noi non siamo capaci nemmeno di avere la coscienza che quello che stiamo vivendo è un racconto, questo chiaramente diventa ideologia, diventa metafisica. Ecco perché è molto facile che una persona dica: “Il mercato può aggiustare le cose”, mentre non si rende conto che il mercato è la somma dei comportamenti degli umani. Ecco perché molta gente vuole cambiare sé stessa e non si accorge che non è cambiando il seno o il naso che tu cambi. Noi non abbiamo bisogno di cambiare, ciascuno di noi è un bell’essere, non ce ne rendiamo conto [perché spesso non sappiamo nemmeno bene chi siamo] mentre non vogliamo cambiare di una briciola i nostri comportamenti. Noi non dovremmo cambiare noi stessi, bensì cambiare i nostri comportamenti, questo però non lo vogliamo fare quindi crediamo che un chirurgo estetico, uno psicologo o un istruttore possano farci cambiare. Questo non può avvenire, sono i comportamenti che devono essere cambiati.

Credi che questa direzione sia stata presa anche perché è cambiata la nostra relazione con il sacro, con quello che era un tempo un punto di riferimento nel bene e nel male, ossia con la religione. Te lo chiedo visto che nello spettacolo entrano più volte riferimento al nostro rapporto con la religione appunto.

Si, non è cambiato nella sostanza, è cambiato nella forma perché chiaramente il precedente atteggiamento era di assoluta sudditanza soprattutto nei confronti dell’apparato ecclesiastico. Per cui la gente si fidava ciecamente, tanto che c’era un’espressione che si diceva “timor di Dio”, cioè la divinità era qualcuno di cui avere paura. C’era l’inferno, anche se oggi molti cristiani dicono : “non è vero che non crediamo che ci sia l’infero”. Mentre fino a 40 anni fa nessuno metteva in discussione l’esistenza del paradiso e dell’inferno. Diciamo che c’era una sorta di favola alla quale si preferiva credere e adesso c’è il tentativo di razionalizzare, un po’ come nei film della Marvel quando adesso il super eroe deve fare una battuta ironica sul fatto che ha un costume perché non sembri che lui sia un idiota con il costume. Io devo dire che preferivo i film della Marvel negli anni ’40-’50 quando l’eroe ci credeva, aveva questo costume ma non era un costume lui era così, almeno quella era pura finzione, puro racconto. Invece l’atteggiamento di razionalizzazione ci vuol far credere che noi sì siamo credenti, crediamo in Dio ma con coscienza di causa. Questo intanto ha allontanato molta gente dalla religione come la intendiamo classicamente senza un processo di emancipazione da essa. Questo vuoto spirituale però ovviamente deve essere riempito. Non si spiegherebbe altrimenti il milione di persone in lacrime alla morte di Steve Jobs, senza un’idea metafisica ad esempio della tecnologia informatica.

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I toni che usi per raccontare questa tua visione delle cose è la comicità, che scegli denuciando il fatto che oggi sembra si possa parlare di cose serie quasi solo attraverso toni drammatici, al di fuori della satira.

No, non è che denuncio questo ma io sto dalla parte di Eduardo De Filippo quando diceva: “L’unico modo oggi di presentare il dramma è la commedia”. Io credo che l’arte faccia bene ad abbracciare anche la retorica, è una delle forme dell’arte che si può usare, però il drammatico che si prende sul serio diventa molto più comico del comico. Ecco perché io prediligo Hitchcock, ossia chi vicino al momento retorico, della serietà o della paura riesce ad avere l’ironia di vedere questa cosa da fuori. Questo vale per l’arte e per la vita. Per esempio sappiamo bene che nessuno può offenderti se non ti offendi tu, il motivo per cui ci si offende continuamente è che siamo prigionieri di un loup. Siamo prigionieri di un loup tra due immagini di noi stessi, una ideale, una depressiva e non riusciamo a vederci da fuori. E io credo che anche l’arte debba imparare a fare questo perché se no si cade nella tronfia retorica che però non trasmette più. Siccome l’arte è fatta per comunicare, per trasmettere, credo che quando l’arte non comunica fallisca il suo scopo.

E l’uso del dialetto?

L’uso del dialetto in questo spettacolo non c’è molto. Ad esempio nello spettacolo che sto portando in giro assieme a questo, che è una raccolta di pezzi degli spettacoli degli ultimi 10 anni, ho brani interamente in dialetto, fatto sulla forma del modo che aveva Dario Fo di spiegare il grammelot, per cui io uso la stessa tecnica, spiego prima i caratteri del dialetto, anche questa spiegazione diventa un brano comico in cui la gente si diverte ma afferra le regole e la grammatica di questo dialetto incomprensibile che è il Pavano dell’interno. Dopo di che faccio questi 7-8 minuti in dialetto e la gente capisce quasi tutto. Non credo che il dialetto sia un problema, può anzi essere un valore. Il teatro è l’arte di rendere comprensibile ciò che è il tuo racconto, perché lo rappresenti, non è scritto, è lì e tu lo devi rendere comprensibile. Se lo sai rendere comprensibile puoi portare il dialetto anche all’estero, come l’italiano. Se non lo rendi comprensibile, il tuo è solo teatro di parola e solo chi ha capito quello che stai dicendo, chi ha un codice condiviso capisce, gli altri no.

Un altro elemento che emerge dallo spettacolo è l’impossibilità che ci dà la nostra società di sbagliare.

Si, e non è tanto l’impossibilità la cosa rilevante quanto la società ti spinge alla paura di sbagliare. Ecco che allora nelle valvole di sfogo dove si può sbagliare l’errore è enorme. Lo si legge per esempio nei social network, in cui persone magari anche equilibrate che sanno formulare un pensiero compiuto, si lasciano andare a infantilismi. Queste sono le valvole di sfogo, è come quello che si ubriaca il sabato sera dopo aver lavorato tutta la settimana e trova questa via dopo l’oppressione dal lavoro. Grande responsabile nell’instillare la paura dell’errore ovviamente uccide la tua creatività. Infatti una delle caratteristiche delle persone creative è il coraggio dell’errore, il coraggio di sbagliare, capire che l’errore fa parte della vita. Se uno è davvero creativo non lo considera nemmeno un errore, tante volte sono gli errori che portano a cose straordinarie, innovative. Prova a pensare agli accordi del Jazz, o di certi blues, precedentemente sarebbero stati considerati errori. Cos’è l’errore? In realtà è qualcosa che sta nella nostra testa, è un racconto. Se io scrivo uomo con l’ “h” la maestra mi corregge, mi dice che si scrive senza ma non è vero, adesso si scrive così, 200 anni fa si scriveva con l’ “h” e magari fra 300 anni si scriverà diversamente. Quindi anche la lingua come il nostro mondo di ragionare è un animale in continuo cambiamento. L’errore è solo un altro punto di vista della realtà. Se pensiamo a questi versi che non mi sono più usciti dalla mente:

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“E sogno un arte eterea

che forse in cielo ha norma

franca dai rudi vincoli

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del metro e della forma”

Arrigo Boito

Ora io mi chiedevo: “un poeta che sogna una poesia che non sia schiava della metrica, che non sia schiava della rima, però è costretto a scriverlo in metrica e in rima perché diversamente la società della sua epoca avrebbe detto che è un cattivo poeta”. Se lui avesse scritto “mi illumino di immenso” la società del suo tempo avrebbe scritto che lui non è adatto a fare il poeta.

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Forse la parola ‘errore’ nel senso di sbagliare ha in sé il senso di ‘errare’ nel senso di vagare…

Di andare, di vagare, si. “Errare humanum est” forse anche nel senso che è umana la curiosità di andare a sondare altri campi. Infatti l’errore nasce dalla deviazione dalla strada principale. Noi deviamo ma è solo così che possiamo creare nuove strade. È un tema eterno. Mi ha sempre colpito un fatto degli accordatori di fisarmoniche. Una volta sono andato a visitare una fabbrica di fisarmoniche che ora è diventata molto artigianale, in Piemonte. Ci spiegavano lì che gli accordatori di fisarmonica non dicono “accordo la fisarmonica” ma “scordo la fisarmonica” perché la devono scordare e quando non c’erano gli accordatori elettronici e non si facevano i pezzi a macchina ma si facevano a mano, quindi l’accordatore era l’uomo, ogni accordatore aveva il suo modo di sbagliare, di scordare la fisarmonica, e da quello capivi chi l’aveva accordata. Questo mi ha fatto capire una cosa importante, la mancanza di errori è mancanza di vita. Il suono perfetto che fa il computer quando simula gli strumenti musicali,ha un algoritmo che inserisce degli errori, perché non c’è altro modo di simulare la realtà che con l’errore. Il suono preciso del computer diventa quasi fastidioso ai nostri orecchi perché non lo consideriamo reale, ed è vero la realtà è errore, non può esserci realtà senza errore. L’idea che tu debba mirare ad una perfezione, è un’idea che dovrebbe essere superata dal tempo, invece è ancora presente.

A proposito di presente, nel tuo spettacolo citi la politica da Colin Powell, Segretario di stato degli Usa al tempo di George W.Bush, a José Mujica, attuale presidente dell’Uruguay .

Si io ho preso due discorsi di questi due rappresentanti della politica senza farli perché nello spettacolo non dico dei testi tratti da questi discorsi, ma li ho presi come spunto. Mi è interessato molto il lato “sincero”, tra virgolette appunto, del presidente dell’Uruguay il quale però al contempo deve nascondere al mondo i problemi dell’Uruguay, quindi si capisce che nella politica si può avere un atteggiamento genuino ma la sincerità vera e propria è molto difficile da raggiungere. Però mi era interessato molto un discorso ad un simposio che aveva fatto sull’ecologia, quando aveva detto: “se gli indù avessero lo stesso numero ti auto per famiglia che hanno i tedeschi davvero pensate che noi potremmo parlare di sviluppo sostenibile, avremmo un mondo inquinatissimo”. Quindi campiamo se noi stiamo davvero governando questa globalizzazione o se ci stiamo facendo governare. Questa cosa mi aveva molto interessato perché noi di solito siamo molto ipocriti, soprattutto quando parliamo di queste cose come lo sviluppo sostenibile, il che significa che noi dobbiamo avere l’opportunità di continuare a svilupparci esageratamente, obesamente come stiamo facendo, lasciando poveri altri paesi, lasciando loro le briciole e dando loro l’illusione di far parte di un mercato. Questo mi aveva interessato. Poi mi aveva interessato anche il discorso di Colin Powell e io parto sempre dal punto di vista del Velo di Maya, perché lui fa un discorso in cui dice che ci sono le armi chimiche, chi stava dalla parte di Bush all’epoca faceva certi discorsi sulle armi chimiche… allora tu ti chiedi “ma queste bugie sono riusciti a raccontarle alla gente?” io credo che non sia così, io credo che la gente sapesse che erano bugie ma voleva crederci. Ed ecco che torna un atteggiamento religioso.

Quindi molti sono i veli che vogliamo trattenere, cosa che un bambino ancora non fa, non ha ancora tutti quegli imprinting e per questo ha l’impulso di spingersi all’avventura, a quella vera, non come dici tu nello spettacolo “alla scarica di adrenalina che può dare il lanciarsi con il bunging jumping, per poi poter ritornare con rinnovato vigore il lunedì al lavoro, all’ufficio del catasto”.

Fin da piccoli la società ci abitua all’idea che noi dobbiamo conformarci, essere devianti ci fa sentire inadeguati alla società. Poi c’è anche il culto della deviazione per cui è una cosa complessa, magari c’è il bambino che sta deviando, si vede come Franty, si vede accusato dagli altri e questo gli dà piacere perché si sente speciale in questo modo, c’è anche questo lato ma è molto marginale. In verità al bambino viene appunto insegnata la normalità che è una cosa orrenda perché la normalità in natura non esiste. Non esiste in natura l’incasellamento che noi proponiamo, le giornate per esempio non sono mai uguali, una è lunga, una corta, non sono mai uguali la luce non è mail la stessa, non c’è un giorno uguale all’altro, però noi abbiamo bisogno di pensare che ci sono questo tot di ore durante la giornata, quindi dobbiamo avere dei punti di ancoraggio. Questo al bambino viene insegnato da subito, quindi quando nasce è chiaro che è all’interno di una famiglia che è già un’organizzazione che gli ha creato un ruolo che lui o lei non decide. Quindi gli viene chiesto questo, lui o lei deve compiacere i genitori, c’è questo attaccamento che lo spinge ad avere bisogno del loro affetto e se ha bisogno del loro affetto e loro gli fanno capire che comportandosi in un certo modo lo avrà, lui si conforma a questo. Quindi il bambino ha pochissimo spazio di libertà. Io però per esempio penso a com’era difficile per quelli della mia generazione, a com’era diverso alla fine degli anni ’60 quando tu dicevi alla mamma, che uscivi e ti vedevi con gli altri bambini, e avevi 8 anni e guardo l’oggi, vedo che non è più possibile questo, non c’è un bambino di 8 anni che può vivere una vita non blindata. Quindi anche i bambini quando giocano fra loro lo fanno sempre in presenza di un adulto, c’è un accompagnamento continuo, senza autonomia, è chiaro che ci si abitua, anche il cane si abitua all’idea che deve seguire il tuo passo, col tempo questo diventa naturale, non ha più la percezione che vorrebbe fare altro. Il cane vuole assecondarti perché sa che tu gli dai il cibo. Il bambino entra subito in questa dinamica qui. Per cui lo spazio di espressione diventa veramente ristretto e la genialità viene fortemente limitata. C’è un mio amico regista che mi ha fatto vedere una foto e mi ha detto: “Guarda che idea di architettura ha mio figlio” e mi fa vedere che questo bambino ha fatto una cosa con un tetto poi delle colonne e in cima gli ha messo un cavallo. Il bambino come dicevo prima non si chiede se sia sbagliato mettere un cavallo in cima a quella costruzione perché per lui non è un errore, per lui è una possibilità.

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Per concludere, uscendo dal teatro uno spettatore, dopo aver visto lo spettacolo ha detto “Bello, bellissimo, il problema è che ti fa ridere ma ha tristemente ragione in quello che dice”. Quindi il rappresentare l’oggi in teatro che valore può avere dal punto di vista? Credi che il teatro possa avere la forza di spostare il punto di vista?

Io sono un po’ al di fuori di questa logica, io non mi sento investito del fuoco sacro, né mi sento che io debba essere un educatore del pubblico, perché questo presuppone che io ne sappia di più di loro. Io ho perfettamente coscienza della mia marginalità quindi quello che io presento è un racconto ed è un racconto del mio punto di vista sulla vita, di questo Aleph che ognuno di noi ha, locale, che però vede tutto il mondo, ed è il mio racconto, il modo di far divertire. Se questo contemporaneamente fa ragionare la gente, gli fa pensare delle cose, li mette in crisi, li fa arrabbiare, a me fa anche piacere perché significa che l’arte è una cosa viva e bisogna che lo sia però io credo di non avere uno scopo in questo, io faccio l’unica cosa che so fare che è raccontare delle storie alla gente.

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