La fuga dall’oscurità di un disertore Nordcoreano e il suo viaggio verso la verità

Ufficiale nei servizi di sicurezza interni della Corea del Nord, intravede la bugia e cerca la luce fino ad una rocambolesca fuga. Una storia per rammentare a coloro che guardano ai regimi con simpatia, ciò che sono in realtà, regni di paura.

La fuga dall’oscurità di un disertore Nordcoreano e il suo viaggio verso la verità
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25 Ottobre 2024 - 15.18 Culture


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di Lorenzo Lazzeri

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In un mondo avvolto da un manto di segretezza e paura, dove il silenzio è legge e la verità mortale, un uomo la cui esistenza si è intrecciata indissolubilmente con la più brutale delle dittature moderne fugge dalla morsa ferrea del regime nordcoreano.
Questa emblematica storia la racconto perché lo stesso protagonista ha narrato la sua vicenda sul canale youtube di Asian Boss. Il suo è un racconto di dolore, redenzione e speranza, un’odissea che lo ha condotto dalle ombre della repressione alla luce della libertà. La sua storia e fuga porta con sé un grido di disperazione per coloro che ancora languono sotto il giogo di una tirannia senza pari.

Prima di diventare un disertore, quest’uomo Lee Chul-eun, che per semplicità chiameremo Lee, aveva occupato una posizione di prestigio all’interno della gerarchia nordcoreana. Nato in una famiglia di alto lignaggio, Lee era parte integrante dell’élite del regime, protetto dalle calde mura protettive dello Stato.

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Cresciuto nell’ambiente più vicino al potere, aveva respirato l’aria tossica della propaganda fin da bambino, predestinato per nascita ai suoi doveri, quali mantenere in vita il regime di Kim Jong-un, custodendo fedelmente il controllo sulla popolazione attraverso il terrore e la sorveglianza.

La sua carriera lo portò di fatto a essere coinvolto nella macchina della sicurezza interna; egli svolgeva un compito ingrato: identificare e neutralizzare ogni minaccia al regime. Era uno di coloro che osservavano attentamente i movimenti della popolazione, ne ascoltavano le conversazioni e stilavano rapporti dettagliati sulla fedeltà al dittatore.

Uno degli episodi più devastanti della sua carriera fu quello che riguardava una piccola comunità di fedeli di una chiesa di fede cristiana che segretamente leggeva la Bibbia.
In una remota zona della provincia del sud  vicino Hwanghae, Lee fu inviato per sorvegliare un gruppo di cristiani clandestini, di per sé, un crimine inaudito sotto il regime, che aveva eretto la filosofia del Juche come unica ideologia permessa, ossia l’adorazione del padre del dittatore come semidio fondatore della patria e di tutta la sua discendenza.

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L’infiltrazione delle dottrine religiose era vista come una minaccia esistenziale, un attacco diretto alla divinità terrena del leader supremo e quando Lee scoprì che un gruppo di fedeli aveva rimosso i ritratti di Kim Il-sung e Kim Jong-un dalle pareti delle loro case sostituendoli con croci cristiane, il regime agì prontamente con punizioni immediate e spietate. I membri della chiesa segreta furono catturati, molti di loro giustiziati sommariamente, mentre altri furono spediti nei campi di rieducazione, temibili prigioni politiche dove ogni speranza di sopravvivenza veniva lentamente erosa dalle torture, dalla fame e dai lavori forzati.

Lee, mero esecutore di ordini superiori, si tramutò in un silente spettatore dell’atrocità, costretto a osservare, impotente, il lento spegnersi della fede e della vita negli occhi dei prigionieri. Sebbene fosse parte dell’élite dominante, il suo ruolo al vertice non lo preservò dall’erosione delle sue certezze. La sua cieca fiducia nell’onnipotenza del regime iniziò a disgregarsi nel momento in cui venne a conoscenza di informazioni segrete che contraddicevano la narrazione ufficiale: ciò che il regime aveva sempre marchiato come una “grande bugia”, ossia la realtà della Corea del Sud, non era quella di un paese oppresso dalla brutale imperialista nazione americana.

L’intera vita di Lee era stata segnata dalla convinzione che il Sud fosse un inferno, un caos senza regole, dove la povertà e l’oppressione erano endemiche, ma attraverso un canale televisivo intercettato clandestinamente, Lee, captò il segnale di una stazione del “nemico”, scoprendo, con sgomento, una realtà completamente diversa: la prosperità e la libertà che vi regnavano erano l’esatto opposto di quanto gli era stato inculcato.

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Questo risveglio fu sconvolgente e tutto ciò in cui aveva creduto, tutto ciò per cui aveva lavorato e sofferto, si rivelava una menzogna orchestrata e confermata da inviati esteri incaricati di trasportare derrate alimentari durante una terribile carestia. La sua lealtà verso il regime cominciò a vacillare. Non era più solo un esecutore di ordini, ma un uomo che comprendeva l’enorme inganno di cui era stato vittima e complice. Fu allora che iniziò a programmare la sua fuga e non era un compito facile, per un uomo del suo rango, abbandonare un sistema che lo aveva nutrito e protetto, ma quel richiamo era troppo forte.

In segreto, iniziò a pianificare l’abbandono del Paese. Il 18 settembre 2016, dopo mesi di meticolosa preparazione, Lee mise in atto il suo piano; con la precisione di un uomo addestrato nella sorveglianza, riuscì a eludere i controlli delle autorità e a raggiungere la costa del Mar Giallo. Attraverso le oscure e fredde acque del mare, nuotò per otto ore, spinto dalla disperazione e dalla speranza, dove ogni bracciata era un atto di sfida contro il regime che lo aveva plasmato. Con pochi effetti personali, Lee raggiunse finalmente la Corea del Sud, trovando rifugio in una nazione che aveva conosciuto solo come nemica.

All’arrivo, tuttavia, non vi fu sollievo immediato perché l’esilio forzato comportava una profonda solitudine e anche se era riuscito a scappare fisicamente dal regime, il peso delle sue azioni e dei suoi complici, dei servizi di sicurezza interna, continuava a gravare pesantemente sulla sua coscienza. Le autorità sudcoreane lo accolsero, ma il percorso verso la libertà interiore era lungo e tortuoso. Lee si sottopose a estenuanti interrogatori, dove raccontò nei minimi dettagli le operazioni del regime e la sua complicità nelle brutalità inflitte agli oppositori.

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Fuggire da una dittatura non lascia cicatrici solo sul corpo, ma soprattutto nell’anima, benché anche il suo stato fisico fosse provato, il suo corpo stremato dall’ardua traversata a nuoto e dai lunghi anni trascorsi in uno stato di costante paura e stress. il suo stato emotivo e la sua anima era la parte più devastata. L’aver partecipato direttamente alla repressione di persone innocenti, l’aver testimoniato orrori senza potersi ribellare, aveva lasciato segni indelebili e nonostante l’accoglienza ricevuta al Sud, Lee portava con sé il fardello di colui che troppi orrori ha visto.

Le sue speranze, ora, si concentrano su un futuro diverso, non solo per sé, ma per l’intero popolo nordcoreano per il quale desiderava portare una testimonianza e un monito attraverso la propria storia di come una dittatura possa tenere in ostaggio milioni di vite. Lee sogna un futuro in cui la Corea del Nord non sia più regno del terrore,  ma Paese dove le persone possano vivere libere, senza la paura di essere perseguitate semplicemente per le loro credenze o opinioni.

Nella sua lotta personale, egli oggi ha trovato una nuova missione, quella di rendere noto al mondo ciò che avviene davvero dietro le porte chiuse di quel regno dell’orrore, concedendo interviste, effettuando conferenze e rilasciando testimonianze. Lee ha deciso di usare la sua esperienza per smascherare la propaganda del regime e sostenere la causa della libertà.

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Lee è più che un disertore; è la voce di un popolo silenziato, l’incarnazione del desiderio umano di libertà. La sua storia è quella di un uomo che ha visto e fatto troppo, ma che ha avuto il coraggio di scegliere la verità sulla menzogna, la luce sull’oscurità. Il suo viaggio, sebbene finito geograficamente, è appena cominciato.

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