Uso e abuso della parola "Rivolta"

Ha assunto un ampio e diverso uso nel linguaggio giornalistico: ce ne sono di ogni genere e categoria e sembrano moltiplicarsi attorno a noi. Ma quando si può parlare di rivolta? E come nasce lo spirito che la guida?

Uso e abuso della parola "Rivolta"
Rivolta
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14 Maggio 2024 - 17.30 Culture


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di Margherita Degani

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I servizi televisivi, le inchieste giornalistiche, così come i post sui social network parlano sempre più spesso di rivolte. A ribellarsi sono gli studenti, i contadini, i gilet gialli in Francia, gli insorti contro gli esiti delle elezioni, gli Israeliani contrari all’accanimento degli abusi governativi e i variegati gruppi di persone che si riuniscono, di volta in volta in base all’argomento, in qualche piazza del Paese.

Ci si dovrebbe allora chiedere quali, tra quelle elencate, siano davvero delle rivolte e come nasca il pensiero che le alimenta. Ma soprattutto- aldilà della specifica natura dell’atto- c’è chi dovrebbe domandarsi perché si moltiplichino le forme di protesta e di malcontento tra i cittadini.

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Dal punto di vista etimologico, la parola Rivolta deriva dal latino “revolvere”, ovvero rovesciare, ribaltare, rivolgere. Si passa quindi all’azione del “rivoltarsi dall’altra parte” che, per estensione, comprende il fatto di reagire contro l’ordine ed il potere costituiti. Si tratta di qualcosa che risulta più consistente della sommossa, ma inferiore, per violenza, alla rivoluzione.

Usualmente la rivolta consiste in una manifestazione di inconformità oppure in un tentativo di opposizione a certe regole imposte dall’autorità vigente. Il rifiuto può quindi oscillare dalle varie forme di disobbedienza civile ad una protesta più violenta, nell’intento di cambiare ciò che non si condivide di quell’ordine. Si distingue tuttavia dalla rivoluzione, perché più circoscritta e priva della volontà di causare un radicale cambiamento – laddove non la  totale distruzione – dell’intero sistema sociale e/o politico di una Nazione.

In L’Unico e la sua Proprietà, ad esempio, Max Stirner, sottolinea che “Rivoluzione e Rivolta non devono essere presi per sinonimi. La prima consiste in un rovesciamento dello stato di cose esistente, dello statuto dello Stato o della Società; essa è dunque un atto politico o sociale. La seconda, pur comportando inevitabilmente una trasformazione dell’ordine costituito, non ha in questa trasformazione il suo punto di partenza. Essa deriva dal fatto che gli uomini sono scontenti di sé stessi e di ciò che li circonda. Essa non è una levata di scudi, ma un sollevamento di individui(…) La rivoluzione ci comanda di creare istituzioni nuove; la ribellione ci domanda di sollevarci o innalzarci”.

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Così prive di una vera e propria teorizzazione e di un’ideologia, le rivolte non si possono quindi trasformare in un fenomeno che sia più complesso di un’azione impulsiva da parte della massa coinvolta. Ciò però non toglie che anche queste abbiano un forte valore simbolico e, talvolta, dei rischi.

Da quale genere di sentimento nasce, infatti, la rivolta? Martin Luther King sosteneva che fosse “il linguaggio di chi non viene ascoltato”, un modo per palesare quel sentimento di disappunto che un gruppo avverte. Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, nel suo La ribellione delle masse, riteneva la rivolta un movimento generalmente indirizzato contro gli abusi e l’apice della lotta per eliminarli dal sistema politico-sociale in questione.

Un altro ad affrontare il tema fu il libertario Albert Camus,  in particolare all’interno del celebre testo intitolato L’uomo in rivolta. “Che cos’è un uomo in rivolta?” – si domanda rispondendo – “un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Insomma questo no afferma l’esistenza di una frontiera. (…) Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto (…). Prima adagiato in un compromesso, lo schiavo si getta di colpo nel Tutto o Niente. La coscienza viene alla luce con la rivolta”.

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L’individuo, per pensare e in seguito attuare una rivolta, si deve trovare in una condizione di insofferenza ed incertezza pressanti. La prima è rivolta ad opporsi ai risvolti di un sistema ritenuto inadatto alle esigenze di una data popolazione e, quindi, considerato un male non necessario che merita di essere estirpato. La seconda è a sua volta un motore che spinge ad agire, rispetto al rimanere agiti e che porta alla scelta di non sottostare più alla morsa.

I persistenti malumori a cui assistiamo continuamente scaturiscono da un’evidente degenerazione della politica e della gestione dei fenomeni, che si verifica quando gli strumenti e gli interventi dell’attività governativa non sono più sufficientemente appropriati ed opportuni a migliorare la vita dei cittadini. Fattori psicologici, materiali, sociali ed ambientali hanno infatti modificato pesantemente lo stile e la visione dell’esistenza, portando alla necessità di nuove e più contemporanee esigenze e soluzioni. Spesso questa richiesta viene tuttavia frustrata, laddove non repressa.

In conclusione, le rivolte – come anche le rivoluzioni, le sommosse, le ribellioni- sono un esempio di come l’uomo, sull’onda della rabbia, della delusione e del desiderio di cambiamento, tenti di incidere sulla storia in modi significativi e, talvolta, anche pericolosi. Uno dei tratti che accomuna i partecipanti è, pertanto, la capacità di percepire un profondo ed intollerabile senso d’ingiustizia, superabile solo attraverso una fase di transizione che si concretizza nelle diverse forme di resistenza.

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