Lunedì prossimo, su La 7, alle 21.15 Corrado Augias ospiterà nella puntata speciale della Torre di Babele Roberto Benigni e Walter Veltroni. Seguirà l’incredibile prima messa in onda integrale del noto Berlinguer ti voglio bene, dopo ben 47 anni di censura. Scritto a quattro mani da Giuseppe Bertolucci e Benigni, nonché diretto dal primo dei due, ha infatti a lungo scontato la sua vena dissacrante e politicamente scorretta. Accanto alle impressioni dell’attore in merito al ruolo interpretato, spetterà a Veltroni affrontare la traiettoria politica ed umana di Berlinguer per domandarsi, alla fine, cosa resti di lui a 40 anni dalla scomparsa.
Mario Cioni – figlio della campagna fiorentina fatta di case del popolo, cantieri e partite a carte tra le bestemmie- attribuisce a Berlinguer la responsabilità di salvare tutti, avviando una rivoluzione che spera potrà risolvere i problemi dei suoi cari e anche dei perdigiorno con i quali divide il suo tempo. Questo il protagonista della commedia all’italiana in questione, interpretato da Roberto Benigni nel lontano 1977. Uscito nelle sale il 6 ottobre di quell’anno, con il divieto ai minori di 18, sconvolse soprattutto per l’abbondante uso del turpiloquio e di un linguaggio dissacrante ai limiti del disturbo. Nel 1988, poi, la pellicola venne sì ridistribuita, ma in una versione accorciata che continuò a circolare dapprima in VHS ed in seguito in DVD.
Come già accennato, all’epoca e negli anni a seguire, la pellicola venne marginalizzata soprattutto a causa della sua sboccata scorrettezza di linguaggio. Celebre la sequenza di bestemmie – quei famosi 2 minuti e 22 secondi di imprecazioni disperate- e l’approccio erotico sui generis con cui Bozzone (Carlo Monni) si rivolge alla madre del Cioni (Alida Valli) per riscuotere il pagamento di un credito. Ma ancora la poesia recitata sempre da Bozzone nella sequenza della bicicletta, accanto ad altri esempi.
Sbaglia tuttavia chi crede che si tratti semplicemente di un film comico senza pretese. Al contrario, si fa portavoce di una realtà spesso seria e triste, a cui la lingua aderisce in maniera disperata ed irriverente nella sua volontà di essere autentica e rappresentativa dei sentimenti, delle emozioni, delle ansie e degli struggimenti. Affresco sociale ed antropologico di una società contadina che si confronta con la trasformazione industriale della piana fiorentina del tempo, tratta di disagio sociale ed esistenziale, di miseria, fame, disperazione, mancanza di un senso della vita e di un futuro. E lo fa anche attraverso l’uso del turpiloquio, del dialetto, dell’elemento di shock che possa smuovere la coscienza del pubblico. Nè manca la politica, intesa come sensazione “di pancia”, che però nulla ha a che fare con il populismo di oggi.
Ecco le basi per un capolavoro che, come spesso accade, non riesce ad essere subito compreso nella sua profondità, ma che finalmente si guadagna un riscatto.
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