di Manuela Ballo
E’ come se la pellicola si fosse spezzata nel bel mezzo del film: lo schermo resta bianco. I dati che Cinetel fornisce, nella nota di ieri, provocano questo stato d’animo: un calo del 71,3% per quel che riguarda gli incassi e, insieme con questi, son calate bruscamente anche le presenze, circa del 71%. Maledetto davvero questo 2020 che, oltre a provocare tante vittime e tanti disagi, ha messo in ginocchio l’intero settore dello spettacolo. Già prima dell’8 marzo, come riportato dall’ansa, alla fine del mese di febbraio, il mercato cresceva in termini di incasso di più del 20% rispetto al 2019, del 7% circa sul 2018 e di più del 3% rispetto al 2017.
Dall’8 marzo tutto è peggiorato: si è registrato, rispetto all’anno precedente, il 93% in meno negli incassi e nelle presenze.
Sono dati fondamentali su cui soffermarsi, perché sono indice della situazione in cui riversa oggi l’intero settore. Altri dati particolari riguardano le produzioni italiane, dove Cinetel evidenzia un incasso di oltre 103 milioni di euro per un numero di presenze pari a più di 15 milioni d’ingressi grazie al risultato delle produzioni nazionali nei mesi di gennaio e febbraio. Inutile dire che, di fronte a numeri così drammatici, Anica e Anec abbiano chiesto al governo e al parlamento “misure permanenti di sostegno” e la riapertura delle sale.
Siamo stati abituati, fin da sempre, a considerare il comparto della cultura come una sorta d’industria dello svago che non ha, a differenza di altri settori, come l’industria o l’edilizia, effetti sullo stato patrimoniale e sull’economia nazionale. I deprimenti dati sul cinema ci offrono lo spaccato di un paese che si sta, culturalmente, impoverendo, fino a desertificarsi. Cinecittà, il cinema dei grandi registi e quello della commedia all’italiana, è ormai solo un segno di un glorioso passato o il governo intende prender atto di un passaggio che è decisivo per far sopravvivere questo patrimonio e quest’ arte? Questo vale per il cinema, per la musica e per gli spettacoli: troppi appelli rimangono inascoltati. Forse c’è chi crede che le piattaforme digitali possano prendere il posto delle sale cinematografiche, dei teatri, delle arene ma non è così; sono e rimangono palliativi o utili supporti per tentare di passare la nottata.
La crisi del cinema è indicativa del durissimo colpo che sta ricevendo l’intero sistema della produzione e del consumo della cultura e, più in generale, delle industrie creative. Questo accade anche perché continua a essere sottovalutata, quando si parla di cinema di teatro e musica, la dimensione economica che aveva assunto, specie nei cinque anni che precedono la pandemia, l’intero comparto dell’industria culturale e creativa. Non a caso, proprio in questo periodo, esattamente nel 2018, lo stesso Parlamento europeo ha elaborato una risoluzione che puntava alla ricerca di una politica unitaria per le imprese culturali e creative e definiva caratteristiche e settori.
In Italia, stando all’ultimo rapporto di Symbola e Union-Camere, presentato nel giugno del 2019, esistevano oltre 290mila aziende di cultura e circa 125mila creative. Il 40 per cento di queste aziende operava in 897 comuni inclusi nei 54 siti Unesco. Queste attività, dunque, incidevano concretamente nella vita reale delle persone e fanno sentire il loro peso nelle realtà territoriali, regioni e province. Le varie aziende che operano in questo settore della cultura e delle creatività avevano prodotto, nel 2017, un fatturato di 95,8 miliardi di euro pari al 6,1% del PIL. Se si verifica l’intero giro di affari indotto da queste aziende, si deve aggiungere 169, 6 miliardi per un totale di 265 pari al 14,5% del Prodotto interno.
Nel settore lavoravano oltre un milione e mezzo di persone, quasi lo stesso numero degli addetti al settore delle costruzioni e del mondo dell’istruzione pubblica e privata. Per avere un parametro molto indicativo per l’Italia: in questo comparto lavoravano più persone di quelle che sono occupate nella Pubblica amministrazione, escluse istruzione e sanità. In aggiunta c’è da notare che è anche il settore dove l’età media degli occupati è tra le più basse: il 50% dei lavoratori ha tra i 25 e i 45 anni. In genere L’Italia è collocata in basso in molte delle classifiche che sono stilate in Europa. In questo settore vantiamo però un primato: la maggiore incidenza nel Pil nazionale, pari al 14,5%. Siamo seguiti da: Francia 13,5; Germania 10,5; Spagna 10,2, Inghilterra 8,2, Olanda 7, Polonia 6,2; Svezia 4,3; Belgio 3,2; Grecia 2,6; Portogallo 2,6 e a seguire le altre.
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