Beatrice Venezi: «L’Italia non accetta donne al vertice e non solo nella musica» | Giornale dello Spettacolo
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Beatrice Venezi: «L’Italia non accetta donne al vertice e non solo nella musica»

Direttrice d’orchestra, la musicista riflette sul perché da noi abbia poche colleghe, su un Paese chiuso ai giovani. E racconta perché ha fatto la giurata per i giovani di Sanremo

Beatrice Venezi: «L’Italia non accetta donne al vertice e non solo nella musica»
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Stefano Miliani Modifica articolo

6 Gennaio 2021 - 21.48


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In Italia vige «una mentalità gerontocratica» contro i giovani. Per non dire verso le donne che assumono incarichi direttivi anche nelle arti. «C’è un problema di accettazione della figura apicale femminile». Lo sostiene, registrando dei dati di fatto,  Beatrice Venezi. A fine 2019 Giorgio Battistelli, compositore e direttore alquanto esigente, quando era direttore artistico dell’Ort – Orchestra della Toscana l’ha voluta come direttore ospite principale. È una musicista che va affermandosi soprattutto sui podi internazionali e che da noi ricopre anche la carica di direttore principale della Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli e dell’Orchestra Milano Classica. Oltre alla bacchetta la direttrice d’orchestra nata a Lucca nel 1990 è impegnata nella divulgazione e ha pubblicato due libri, entrambi per la Utet: Allegro con fuoco. Innamorarsi della musica classica (176 p., € 16,00), autobiografia del 2019, e Le sorelle di Mozart. Storie di interpreti dimenticate, compositrici geniali e musiciste ribelli (174 p., € 16,00), nel 2020. 
Musicista dalle idee precise, che rivendica il diritto a curare anche l’aspetto, vanta anche una esperienza insolita per il mondo che più frequenta Beethoven e colleghi: Beatrice Venezi era uno dei tre giurati (invece di quattro causa esclusione di Morgan) nella giuria di ammissione dei giovani cantanti  di “Ama Sanremo” per il festival 2021 condotto da Amadeus. Parla anche di questo, nella conversazione che segue: che sia lei a dire. 

Lei è direttore principale dell’Orchestra della Toscana, direttore principale della Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli e dell’Orchestra Milano Classica. Ogni compagine orchestrale ha il suo suono, la sua identità. Cosa cerca di dare alle orchestre? Segue un suo filo unico o si adegua?
Entrambe le cose. Sicuramente porto una mia identità ma insieme a un grande rispetto dei musicisti con cui mi trovo a lavorare. Credo anzi che uno dei compiti del direttore d’orchestra sia valorizzare i talenti presenti nelle varie orchestre, cercare i punti di forza, limitare le debolezze, sicuramente creare un amalgama, un suono riconoscibile anche se è difficile oggi: c’è un continuo ricambio dei musicisti, di “aggiunti” (musicisti ingaggiati di volta in volta, ndr), ci sono persino “spalle” (parti dell’orchestra, ndr) che ruotano. Anche questo influisce tantissimo sul cambio dell’identità del suono dell’orchestra. Ogni volta si lavora con materiale prima di tutto umano diverso, a volte nelle stesse orchestre. 
I suoi compositori preferiti?
Dal punto di vista operistico Puccini sopra tutti, il tardo Verdi, anche Mascagni e tutta la zona del verismo. Dal punto di vista sinfonico sono molto affascinata e legata, anche per le esperienze avute, al sinfonismo russo. Ho fatto molta esperienza nei paesi dell’ex Unione sovietica dove è il repertorio abbastanza standard. Ascoltare e percepire come viene interpretato e vissuto quel mondo musicale, quel suono tipico di quelle orchestre e paesi mi ha dato consapevolezza rispetto a quel repertorio. È un grande bagaglio. 

Ora qualche domanda che un giorno speriamo diventi obsoleta.
Quindi il direttore donna, il direttore giovane …
Un direttore giovane … In effetti è un problema italiano. Riccardo Muti divenne direttore del Maggio musicale fiorentino nel 1968 a 27 anni. Nell’Italia di oggi pensare un direttore principale di questa età come in ruoli di vertice pare impossibile. Perché?
È una mentalità gerontocratica tipicamente italiana in tutti i campi. Forse nella musica classica lo si percepisce in maniera più forte però funziona così in tutti i settori. Non c’è la capacità di pensare al ricambio generazionale, soprattutto di pensare a un’eredità che passa da una generazione all’altra. La generazione precedente è sempre estremamente premurosa nel tenere il sapere per sé, nel non passare il testimone alla generazione successiva. Dall’altra parte anche la generazione successiva spesso e volentieri cerca di tagliare i ponti con il passato. Non so se è una reazione naturale. 
Tagliare i ponti è una reazione abbastanza normale in un giovane, no? … 
Credo l’ideale sarebbe riuscire a trovare dei propri maestri come in tutti i lavori, trovare figure che hanno voglia di passarti quella consapevolezza, quell’esperienza a cui tu giovane puoi attingere e poi cercare di modificarla. Altrimenti ogni volta sono ponti da ricostruire dalle fondamenta. È difficile procedere, evolversi, da una condizione del genere ma lo dico a 360 gradi. È un po’ come accade quando cambia il partito dominante al governo e si vuole distruggere tutto quanto ha fatto il governo precedente. Lo stesso succede tra le diverse generazioni di professionisti. Non è salutare, dovrebbe esserci un sano scambio tra generazioni per costituire un flusso continuo che porti un’evoluzione. 
Nel nostro paese mi pare ci sia molta difficoltà nel passare il testimone, qui a 40 anni si è troppo vecchi per alcune cose ma sempre troppo giovani per prendere ruoli di responsabilità, ha sempre tutto una doppia lettura, si pesa tutto con due pesi e due misure. 

La musicologa Ilaria Giani nel suo recente saggio “Direttrici senza orchestra” (clicca qui per l’intervista all’autrice) ha scritto a pagina 42: “Si può ipotizzare che vi sia uno stereotipo che stenta ad esaurirsi a causa di una mancanza di stimoli e di modelli di riferimento, e che operi a livello subliminale”. Si riferisce anche al fatto che come direttrici d’orchestra siate poche, in Italia. Perché a suo parere?
Il problema non riguarda solo la musica classica, è culturale e molto più ampio. C’è un problema di accettazione della figura apicale femminile soprattutto quando si tratta di una figura che non vuole mascolinizzarsi. Siamo legati al vecchio stereotipo e ragioniamo per cliché: una donna o è bella o è intelligente, o è colta o è curata, entrambe le cose non può essere; una donna deve avere i cosiddetti attributi. Parliamo per cliché e di conseguenza il pensiero è questo.  Poi c’è un problema spesso dei ruoli nell’ambito familiare dove non c’è spesso parità, nemmeno tra i trentenni di oggi e lo dico con cognizione di causa. Il problema è legato al concetto di leadership: per essere un leader devi avere appunto gli attributi che le donne biologicamente non hanno. 
È uno dei motivi per cui non abbiamo ancora avuto una premier donna, per esempio. 
Esatto. È significativo. Si continua a pensare ancora oggi che un capo sia uno che mostra i muscoli. È un problema culturale. Cos’è la leadership oggi? È chi ti fa paura? È il capo che ti intimorisce? O qualcuno che rispetti e decidi di seguire. Esiste anche questo tipo di problema. Quindi se si tratta di una superiore forza muscolare è chiaro che non lo si associa a una donna. 

Nel rock, nel pop, le donne hanno conquistato la scena. Citando un po’ a caso, Patti Smith, Madonna, Beyoncé a livello mondiale, in Italia Gianna Nannini, Fiorella Mannoia, Emma Marrone, Carmen Consoli … Questi campi musicali hanno figure femminili forti, nella classica ancora non accade. Come mai? È un problema della classica? 
È un ambiente più conservatore, poco ma sicuro. Credo che il problema sia di nuovo legato a un cliché per cui i lavori estremamente complessi, di intelletto, ‘alti”. Il nostro settore considera la classica molto più alta rispetto al pop e rock, sicuramente è più complessa e presuppone un livello di conoscenze, di preparazione, di formazione, intellettuale e culturale molto più alto. Le donne di cultura in Italia quando si tratta di tavole rotonde anche lì mancano di punti di riferimento al grande pubblico. Di conseguenza qualcosa di estremamente sofisticato che prevede una preparazione intellettuale molto elaborata non è mai associato alle donne. Specialmente quando si arriva alla direzione d’orchestra che mette insieme questa complessità con il tema della leadership. In definitiva un direttore è un leader a tutti gli effetti. C’è una combinazione maledetta di questi due elementi. Come se certe materie fossero troppo difficili. Anche i primi violini e le spalle delle orchestre donna non sono così tante. 

Sanremo Giovani: perché è andata in giuria, cosa ha appreso?
Sono molto contenta che la Rai abbia avuto questa apertura nei miei confronti e, per estensione, nei confronti del mondo della classica. C’è un collegamento che va reso evidente al grande pubblico tra l’aria d’opera e la canzone italiana di cui Sanremo è la massima espressione. Un filo rosso collega questa nostra tradizione del canto. Quindi è stato un modo di arrivare a un pubblico più ampio con la speranza di poterlo incuriosire e portare a teatro non appena sarà possibile. Tutto quello che faccio in televisione compreso Ama Sanremo va in quella unica direzione: incuriosire un più vasto pubblico alla classica. È il motivo per cui ci sono andata: rendere pop anche la musica classica, renderla accessibile. “Ama Sanremo” va nella direzione in cui vanno i miei due libri e la mia presenza sui media. Tutto è finalizzato ad aprire, divulgare, portare le persone a teatro. Quando i teatri erano ancora aperti tanta gente veniva a ringraziarmi perché mi diceva che quello era il loro primo concerto, non era mai stato a teatro. Se in ogni concerto ho conquistato anche una sola persona è una conquista. 
Il direttore d’orchestra viene visto come qualcuno che sta sul piedistallo, che incute in alcuni casi un timore reverenziale: è tutto fuorché quello che ci vuole per avvicinare il pubblico e invece di allontanarlo. Un classico accade quando il non addetto ai lavori applaude nel momento sbagliato e viene subito guardato male, quindi si sente ignorante … Chi vuole sentirsi dire che è ignorante? Nessuno. Invece avremmo un grandissimo bisogno di pubblico quando ci sarà la riapertura dei teatri. 

A proposito: un concerto in streaming sopperisce quello dal vivo con spettatori? Soprattutto di un’orchestra di classica? Non sembra proprio lo stesso.
Certo, a teatro c’è la sensazione fisica, sulla pelle, la qualità e l’emozione sono completamente diverse. È un modo per rimanere vicino al pubblico, mi auguro finisca il prima possibile.  Priva noi musicisti dell’emozione dell’andare in scena e dell’adrenalina, nello streaming non hai lo stesso “tiro” di un live, non è una registrazione per un disco, è una via di mezzo, un ibrido.

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