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Franco Fabbri: «Abbado lasciò la Scala perché aveva contro gli ambienti conservatori»

Il musicologo parla del direttore e Milano, di Frank Zappa, di rock e classica con l’uscita del nuovo libro “Non è musica leggera”

Franco Fabbri: «Abbado lasciò la Scala perché aveva contro gli ambienti conservatori»
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27 Novembre 2020 - 10.32


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di Giordano Casiraghi

Un libro di Franco Fabbri va sempre preso a scatola chiusa. Ne ha scritti tanti, a cominciare da «La musica in mano», un testo didattico, un manuale di teoria musicale, che uscito nel 1978 si prefiggeva il compito di accompagnare i giovani allievi di corsi musicali organizzati dalla Cooperativa L’Orchestra. Già, L’Orchestra, quindi Stormy Six di cui Fabbri è stato protagonista come compositore, cantante e chitarrista. Oggi Fabbri è soprattutto impegnato come operatore musicale nella diffusione dei temi e principi che riguardano il vasto mondo della musica. Si è distinto come uno dei massimi musicologi esistenti insieme al collega Philip Tagg.
Il nuovo libro si intitola «Non è musica leggera» (Jaca Book, 325 pagg, 20 euro) e mette in ordine gli scritti dello stesso Fabbri commissionati dal Teatro alla Scala come saggi per programmi di sala, introduttivi all’ascolto dei concerti. Chi l’avrebbe detto che tra un concerto e l’altro di pop rock, l’artista coltivasse la passione della ricerca musicologica espressa nei testi «Elettronica e musica», «Il suono in cui viviamo», «L’ascolto tabù» e via dicendo?
Nell’impossibilità di un incontro ravvicinato, ci accontentiamo di una telefonata per porre domande all’autore sul libro e altro.

Un libro che contiene riferimenti e citazioni datate 2020, quindi è stato scritto negli ultimi mesi?
Veramente era un po’ di tempo che avevo intenzione di ordinare i vari saggi scritti per programmi di sala, un’idea che risale a cinque anni fa. Una volta ultimato per vari intoppi editoriali è rimasto fermo e a un certo punto ho deciso che me lo sarei pubblicato da solo. Nel frattempo è arrivata la chiusura forzata per Covid e così l’ho fatto uscire on line su Accademia, finché il responsabile Jaca Book mi ha invitato a pubblicarlo con loro.
È una lettura impegnativa, su carta è certamente meglio che on line. Entriamo nei dettagli, come è strutturato il libro?
L’ho diviso in due parti: la prima raccoglie i saggi che ho scritto come programmi di sala. Fra i molti ho scelto quelli che parlano di musica del 900, con unica eccezione che riguarda una rappresentazione di un’opera barocca, L’«Orfeo» di Luigi Rossi, prima opera italiana a essere rappresentata a Versailles nel 600. L’arco di tempo è abbastanza lungo, il primo saggio è del 1984 e riguarda Leonard Bernstein, e gli ultimi arrivano fino a pochi anni fa comprendendo Mahler, Donatoni, Sciarrino, Schonberg, Ives, Bartok e Weill. Leggendo questi saggi ho trovato che ci fosse del valore e un modo di parlare di quelle musiche che non è proprio quello abituale dei saggisti che fanno questo tipo di lavoro.
C’è sempre stata una precisa divisione tra la critica di musica leggera rispetto a quella di musica classica. Come sono state accolte le sue escursioni in questo ambito?
Diciamo che non ero nuovo agli argomenti sulla musica classica, infatti partecipavo alla rivista Musica/Realtà di Luigi Pestalozza. Io però ero fuori dal circuito dei giornalisti che presenziavano ai festival di settore. So che i miei saggi sono stati letti avendone trovato traccia di citazioni. Nelle settimane successive all’uscita del libro ho ricevuto critiche positive da alcuni critici che lavorano per la radio svizzera. In particolare mi hanno riconosciuto il merito di praticare una seria ricerca e di cercare fonti per non dire sempre le solite cose. Generalmente non vengo riconosciuto per il mestiere di saggista di musica classica e certi riconoscimenti mi fanno piacere. Con piacere ricordo anche quella volta che Fedele D’Amico, critico de L’Espresso, nel recensire il concerto di Leonard Bernstein alla Scala rivolgeva un elogio allo scrivente del saggio del programma di sala.

Qua e là nel libro lei non manca di allargare la visuale e accenna alla cacciata di Claudio Abbado da direttore musicale del Teatro alla Scala dove è rimasto dal 1968 al 1986. Cos’era successo?
Purtroppo sono episodi dimenticati, un argomento tabù del quale a Milano non si parla da molto tempo. Un episodio che anticipa la svolta a destra di Milano, ben prima dell’arrivo di Formentini a sindaco di Milano. Quando Abbado era direttore stabile della Scala, e quando Carlo Maria Badini era sovrintendente al Teatro, c’è stata un’apertura al pubblico studentesco e si ospitava musica contemporanea. Ebbene, gli ambienti conservatori misero in campo una precisa avversità e alla fine Abbado fu contento di andarsene, anche perché ha poi fatto grandi cose essendo diventato direttore della Berliner Philharmoniker. Insomma, di quel periodo non si parla granché e su questi episodi andrebbe fatta maggior memoria, tempi di quando Maurizio Pollini prima di un concerto si mise a leggere un comunicato contro la guerra in Vietnam.
A fine anni Settanta a Milano, l’Assessore alla Cultura, che era un democristiano, istituì una consulta dello spettacolo della quale facevano parte le istituzioni milanesi, ma non solo, venne chiamata a farne parte anche una struttura come L’Orchestra oltre a musicisti del Jazz e della musica popolare. Oggi questo è impensabile, nei teatri si propone solo il repertorio classico e l’altra musica si fa altrove.

Un ampio capitolo è dedicato ai minimalisti americani con una nota al nostro Piero Milesi. L’ha conosciuto?
Con Piero entra in gioco la conoscenza personale, amico e vicino di casa, ci siamo raccontati molte cose e a sua volta era amico di Philip Tagg, mio maestro e collega. Credo poi di essere uno dei pochi che abbia conosciuto di persona tutti i minimalisti americani. Ho fatto anch’io musica elettronica nei primi anni Ottanta e così in varie occasioni ho partecipato a dibattiti e conversazioni con Terry Riley, Steve Reich e soprattutto La Monte Young di cui ancora oggi ricevo delle newsletter.
Fuori dall’ambito prettamente classico ha dedicato ben due capitoli a Frank Zappa. Anche con lui «non è musica leggera»?
La sua musica era sempre scritta, infatti quando doveva assumere un nuovo musicista gli metteva davanti uno spartito abbastanza difficile da eseguire per metterlo alla prova. Su Zappa avevo scritto un capitolo per un convegno non lontano da Roma, dove mi attendevano degli appassionati dell’artista. Mi ero occupato del rapporto di Zappa con le tecnologie di registrazione e l’elettronica. L’altro capitolo riprende un programma di sala di un’esecuzione al Piccolo Teatro a Milano di «The Yellow Shark» portato in scena da un ensemble italiano nel 1992.
La seconda parte del libro che argomenti tratta?
È una raccolta di testi più recenti, saggi e dibattiti, come anche conferenze, rivolti inizialmente a studenti. Si argomenta di cose che possono risultare astruse al lettore che si confronta per la prima volta su questi argomenti. Per esempio ci si chiede cos’è la musica. Ancora ci chiediamo cos’è la musica? Al professore di Conservatorio verrà da rispondere che la musica è quella cosa che sta scritta sulle partiture, ma forse c’è dell’altro. Tra i capitoli abbiamo «La musica come forma dell’interrelazione sociale», «La linea, il corpo, la politica», «Il corpo nella mente musicale» fino a «L’inganno della ricerca».

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