Ilaria Giani: «Direttrici senza orchestra perché comanda la retorica maschile»

Con un saggio la musicologa affronta un tema che investe la struttura sociale: «Si associano le qualità del podio agli uomini e non è così. Quote rosa utili per scuotere, poi basta»

Ilaria Giani: «Direttrici senza orchestra perché comanda la retorica maschile»
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15 Novembre 2020 - 19.11


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In vista di un intervento chirurgico chi vorreste alla guida dello staff: un uomo perché uomo oppure confidate sulla bravura e non sul genere di chi vi opera? Se preferite un uomo cialtrone a una donna brava fermatevi pure qui con la lettura; in caso contrario trasferiamo il discorso alla direzione d’orchestra dove non è in gioco la vita bensì faccende come il piacere del suono, l’interpretazione, la conoscenza, il provare e condividere esperienze, la felicità della musica. Orbene: la musicologa Ilaria Giani ha indagato un territorio poco frequentato e ha scritto un libro sulle direttrici d’orchestra che, implicitamente, investe la nostra struttura sociale dove responsabilità e potere sono ripartiti più sul genere sessuale che sulle capacità a danno di tutti, uomini compresi. Il saggio ha un titolo dalla sintesi efficace, Direttrici senza orchestra (LIM – Libreria Musicale Italiana, pp. XXV+107, € 18,00, potete acquistarlo cliccando qui), e comprende anche interviste alle direttrici Margherita Colombo, Gianna Fratta e Silvia Massarelli. Ne parla l’autrice.

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Come è nato questo libro?
Questo libro è l’evoluzione della mia tesi. Mi sono laureata in musicologia al dipartimento di Musicologia e Beni Culturali di Cremona. Nel periodo in cui dovevo scegliere l’argomento della tesi avevo acquistato un disco con Nathalie Stutzmann, contralto e anche direttrice: tra tutti quelli che avevo era l’unico diretto da una donna. In realtà Stutzmann dirige un ensemble barocco, mentre io mi sono occupata di repertorio sinfonico, ma quel disco è stato lo spunto di cui avevo bisogno. Mi resi conto che l’unica altra immagine di una donna sul podio che avevo in mente era una pubblicità per una crema per le gambe per quando ti senti stanca. Così con la relatrice abbiamo deciso di occuparci proprio della sottorappresentazione delle donne nella direzione d’orchestra, consapevoli che c’è molto da indagare: quante studiano per diventare direttrici? Quante dirigono? Come vengono raccontate nei media?

Come le raccontiamo, nei media?
Prendo spunto da una polemica di agosto, legata a un articolo sulla Stampa (del critico Giangiorgio Satragni sulla direttrice Joana Mallwitz nel titolo mozartiano Così fan tutte al Festival di Salisburgo, ndr): per elogiare la direzione il giornalista ha scritto che la direttrice è stata brava perché dirigeva come un uomo. Lo ha scritto in perfetta buona fede, ma ha comunque confermato implicitamente che dirigere sia qualcosa da uomini e che le donne possono al massimo imitarli. Ne è nata una polemica sui social a cui anche Michela Murgia ha preso parte. E anche io penso sia ora di sbarazzarci di questa retorica.

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Che sarebbe?
Che esista una “norma maschile” per la direzione d’orchestra: i requisiti per dirigere si identificano con caratteri creduti solo maschili, come capacità di leadership, competenza, dedizione allo studio, autorevolezza: sono caratteristiche che siamo abituati a mettere nella casella “maschio”, ma in realtà certi maschi non le hanno e certe donne sì. Semplicemente non dipendono dal sesso. Eppure per convenzione queste qualità vengono connotate come maschili. Scivoloni simili dei giornalisti rafforzano l’idea che sia eccezionale che una donna possa dirigere un’orchestra e questo inficia il discorso sulla parità. Non si tratta di una mera questione di numeri: le direttrici potranno diventare tante quante i direttori, ma se continueremo a descriverle in quel modo non avranno comunque lo stesso trattamento e la stessa dignità sul podio dei loro colleghi.

C’è difficoltà ad assimilare una donna a un ruolo di potere quale riteniamo sia quello sul podio?
Sì, è un retaggio dell’organizzazione sociale che fino al secolo scorso si basava su una rigida divisione di ruoli per cui agli uomini spettano certi compiti, tra cui il lavoro e la gestione del denaro, mentre alle donne sono attribuite caratteristiche utili perlopiù alla dimensione casalinga. Sono state tenute costantemente lontane dal potere, basta vedere che fino a un secolo fa non avevano accesso all’istruzione che è il primo passo verso la libertà e quindi verso il potere almeno su se stesse. A causa di questi retaggi culturali vedere una donna in un ruolo di guida suona ancora oggi come una “dissonanza”.

Essere donna non equivale a essere necessariamente migliore, giusto?
No. Come non è un valore in sé essere uomo non lo è essere donna. Infatti le direttrici che ho incontrato sono contrarie alle quote rosa, temono sia un’arma a doppio taglio: non vogliono che passi il messaggio che dirigono perché donne. Vogliono dirigere per il loro talento e merito. Mi ha colpito Gianna Fratta, direttrice foggiana: mentre la intervistavo disse di essere contraria alle quote rosa ma favorevole alla quota grigia, intendendo la materia grigia del cervello. Credo che le quote rosa possano essere un passaggio utile a “togliere la ruggine dall’ingranaggio”, un primo scossone per costringere ad aprire gli occhi sul panorama dei talenti femminili, troppo a lungo culturalmente ostacolati o ignorati, ma il vero obbiettivo deve essere farne a meno il prima possibile.

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Una direzione femminile implica una diversità artistica? Come saprà da quando molte istituzioni fanno le audizioni per assumere orchestrali dietro un paravento o una copertura il numero di musiciste assunte è decisamente salito.
A mio avviso non c’è differenza. Lo studio “Orchestrating Impartiality” del 2000 delle economiste americane Goldin e Rouse rivelava che quando si ricorreva alle cosiddette “blind audition”, ovvero quando le audizioni degli orchestrali venivano svolte dietro a un pannello per impedire alla commissione di vedere chi suonava, le opportunità per le donne di essere assunte salivano del 25%. Il risultato delle “blind audition” dimostra che non ci sono differenze a seconda del sesso di chi suona, caso mai le differenze sono nelle orecchie di chi ascolta e che è guidato più dai luoghi comuni che non da ciò che effettivamente sente. Tali pregiudizi non sono necessariamente consapevoli, anzi la loro forza sta nel fatto che non ci accorgiamo di quanto ci influenzano. Ritengo che ciò valga anche per la direzione d’orchestra: le differenze dipendono dal talento e dal carattere di ogni singolo individuo, non si può ridurre il discorso a “tutte le donne dirigono così, tutti gli uomini cosà”.

Nel novembre 2019 l’Orchestra della Toscana ha nominato la finlandese Eva Ollikainen direttore principale, Beatrice Venezi e Nil Venditti direttrici ospiti principali (clicca qui per la notizia). Come lo valuta?
Spero non resti un caso isolato. E spero non sia qualcosa di dovuto: la questione femminile ultimamente è molto sentita e dibattuta e il rischio è che diventi una moda passeggera. Mi auguro che altri direttori artistici prendano l’esempio dell’Ort e diano opportunità alle giovani, sempre in un’ottica di scelta dettata dalla qualità e dal merito. È difficile che una singola scelta marchi un cambio generale, ma può essere un grande incoraggiamento per le giovani che studiano per diventare direttrici.

Rispetto a paesi come la Germania l’Italia è indietro?
Siamo indietro in tanti aspetti, non solo nella direzione d’orchestra. In generale le donne in Italia arrivano dove non arrivano i servizi e lo Stato, il lavoro di cura grava sulle loro spalle e questo le tiene lontane dal lavoro e in particolare dalle professioni che impegnano di più in termini di tempo, tra cui la direzione d’orchestra. Le direttrici con cui mi sono confrontata lavorano anche all’estero e dicono che lì la situazione è più meritocratica, ci sono opportunità che qui mancano. Ad esempio fanno audizioni agli aspiranti direttori d’orchestra, mentre da noi i direttori artistici chiamano per conoscenza, per cui si alimenta un circolo vizioso: viene chiamato chi è già conosciuto. Ciò ostacola il reclutamento di nuove leve. Se aggiungiamo che in Italia per la cultura non ci sono soldi e si fanno pochi concerti, il risultato è che le occasioni di fare e ascoltare musica sono sempre meno e così si fa un grosso danno alla musica classica, a chi la vuole ascoltare e a chi deve ancora emergere come direttore o direttrice d’orchestra.

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