Quella sera che Morricone ripensò alla paura e alla fame nella guerra

A una festa romana il compositore dimostrò riservatezza e umiltà: non amava le atmosfere caciarone

Quella sera che Morricone ripensò alla paura e alla fame nella guerra
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6 Luglio 2020 - 22.42


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di Giuseppe Costigliola

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Da oggi siamo tutti un po’ più soli. Immagino siano in tanti ad avvertire quel sentimento triste e malinconico che addenta l’anima quando scompare un amico carissimo, qualcuno il cui ricordo è legato a una stagione della vita, a un comune, impalpabile sentire – quel moto oscuro che ci ha preso alla notizia della scomparsa di Ennio Morricone.
Con lui se n’è andato un lungo brano delle nostre vite, un pezzo di storia della musica, un trancio enorme d’Italia: anch’ella, sempre più sbrindellata, deve sentirsi ancora più sola e malinconica per la perdita di uno dei suoi più ammirevoli figli.

Io il Maestro l’ho solo sfiorato. Una quindicina d’anni fa, forse più (di certo non aveva ancora vinto l’Oscar alla carriera, quello del 2007), ad una sorta di festa, un po’ sguaiata e cialtrona, in casa di certa borghesia romana di fresco arricchimento (o, almeno, questa l’idea che me ne feci). Non so neanche come capitai in quell’appartamento pariolino, pacchiano nella sua magniloquenza – o meglio, lo so benissimo. Avevo saputo che forse Morricone vi avrebbe fatto un salto (arrivò tardi e andò via presto: non era uomo da gozzoviglie e baraonde), e brigai con amici e conoscenti per ottenere quell’invito. Ambivo a intervistare il Maestro, da anni annotavo domande, sognavo confronti musicali. Così, esperienza mai più ripetuta, m’imbucai in quel ricevimento.
Be’, andò come andò. Non era il luogo né il momento per un’intervista, ma lui fu molto gentile. Riservato ma cortese, d’una cortesia istintiva. Nei pochi minuti di dialogo che ebbi con lui ne usciva confermata l’idea che mi ero fatta, d’una persona appunto riservata, d’un decoro e un riserbo all’antica, finanche timida. L’intervista l’avremmo fatta in un altro momento, mi promise non so quanto convinto, e questo mi bastò. Ma non ebbi la prontezza o la faccia tosta di chiedergli un recapito, un telefono.

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Riuscii appena a porgli qualche domanda, su un argomento che mi appassionava: la sua infanzia, i ricordi della guerra, di Roma occupata dai tedeschi. Era complicato farlo parlare. Sedeva su un divano di alcantara, pareva teso e per niente a suo agio, attorno a lui gli ospiti svolazzavano come mosche moleste e i miei timidi approcci si perdevano in quel ronzio ininterrotto. A quelle domande gli si accese come una luce di curiosità negli occhi schermati dai grossi occhiali, quasi si chiedesse stupito: “Ma come, costui non mi chiede di musiche, di attori, di registi e di film?” E così, tra un’interruzione e l’altra, tra squittii di matrone ingioiellate e bramiti di gonfi signorotti incravattati che ambivano all’attenzione del Maestro, cavai qualche brincello di ricordi. Conservava una memoria fervida e commossa di quei mesi, che non dovettero essere per niente facili per lui e la sua famiglia. Fame, paura, insicurezza per il futuro: lo rammentava bene. Rievocò le ore tremende dopo l’attentato di Via Rasella, quando per sfuggire alle retate dei tedeschi imbestialiti trovò rifugio in un teatro, insieme a molti. Ricordo come fosse ora la sensazione di straniamento che avvertivo nel sentirlo evocare quei tempi cupi: era inquietante risentire l’eco dei passi dell’oca degli stivali nazisti che violentavano i selciati della città aperta, nell’atmosfera caciarona e gaudente in cui si svolgeva quella conversazione strappata.

Certo, avrei voluto anch’io fargli domande sulla sua musica. Ne avevo appuntate un’infinità. Avrei cominciato con il chiedergli di parlarmi della sua stagione sperimentale e avanguardistica, nei primi anni Settanta (“Controfase”, i dischi di “Dimensioni sonore – Musiche per L’Immagine e l’Immaginazione”). Perché, oltre alle colonne sonore che gli hanno dato la celebrità, Morricone ha percorso ogni campo del vastissimo universo musicale: dalle canzonette di successo alle hit pop, dalle ballad ai brani per grandi interpreti, dalle composizioni sinfoniche e concertistiche al jazz, dalla psichedelia alla disco, alla house, appunto all’avanguardia. Avrei poi voluto chiedergli se ancora ricordava la sua prima “composizione”, fatta – avevo letto – a sei anni; e di parlarmi dell’esperienza all’Accademia di Santa Cecilia, dove entrò nel 1940 e dove studiò tromba, composizione e direzione d’orchestra; del lavoro alla radio negli anni ’50, del primo contatto con il cinema, con “Il federale” di Luciano Salce (1961).

Di certo gli avrei chiesto di aprire il suo scrigno e rivelarmi i segreti di alcune sue colonne sonore meno note, di molti film di genere che adoravo e ancora adoro, poiché mi sembrava che in quelle avesse messo qualcosa di sé che non si trova nei film di successo: “L’alibi”, “Giornata nera per l’ariete”, “Il diavolo nel cervello”, “Per le antiche scale”, “Le foto proibite di una signora per bene”, “Veruschka – Poesia di una donna”, “Viaggio con Anita”… Gli avrei chiesto dell’influsso di Bach e della musica del Seicento sulla sua musica, da dove sorgeva quel tempo “ostinato” che caratterizza molti suoi brani, donde sgorgava la qualità delle sue settime maggiori che aprivano scorci d’infinito nelle sue melodie dolcissime. Avrei voluto chiedergli come aveva fatto a scrivere una colonna sonora strepitosa come “Il bandito dagli occhi azzurri”, piena di brani jazz col tempo 5/4 al modo di Dave Brubeck mirabilmente fusi con certe suggestioni bachiane, pur non essendo un amante del jazz, anzi quasi diffidando di esso. Avrei voluto chiedergli del suo rapporto con gli altri giganti suoi colleghi, Nino Rota, Piero Piccioni, così diversi da lui, altrettanto immensi. Avrei voluto chiedergli di raccontarmi della sua grande amicizia con Sergio Leone, soprattutto negli anni precedenti al successo, dell’inafferrabile poesia che li legava. Ma questo non è il luogo del rimpianto. Dirò invece come finì quella serata.

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Ad un certo punto qualcuno sedette al pianoforte a mezza coda che arredava l’ampio salone, assiso accanto a imperiose tende porpora damascate, in diagonale rispetto ad un buffet esagerato, che non trovava pace. Un uomo di mezz’età, stempiato e in maniche di camicia, cominciò a strimpellare un brano struggente da “C’era una volta in America”. Non suonava male, ma gli accordi erano semplificati, la tonalità non era quella. Morricone, incuriosito, si avvicinò al piano: lo seguii come un’ombra, speranzoso. Con viso serio, compunto, guardava le mani dell’improvvisato pianista, il quale poi, forse a disagio, gli chiese di suonare lo stesso brano. Il Maestro non parve contento, probabilmente era seccato, chissà quante volte gli chiedevano di esibirsi ovunque ci fosse un piano, ma assecondò quel desiderio, sedette e suonò quel magnifico pezzo, così come andava suonato. E i momenti di tristezza e di vuoto passati a buttare giù questo stracco articoletto come per magia si riempiono del dolce riverbero di quelle note, di quegli accordi, ancora vibra intatta in me l’emozione di averlo sentito suonare, a quella poca distanza – e proprio quel brano.
Poi il Maestro andò via. Nella ressa che lo investì come un tornado, percorso dal querulo e cacofonico coro di “Ma no, già va via, rimanga ancora un po’”, non ebbi modo di salutarlo. Non lo rividi mai più. L’intervista tanto anelata rimarrà un sogno irrealizzato.

Adesso unisco il mio dolore a quello dei molti e molti la cui vita in qualche modo è stata segnata da Ennio Morricone, dalla sua persona, dalla sua arte. Come ebbe a dire, il suo più grande vanto era l’aver scritto la colonna sonora di così tante persone – ed è così.
Sì, da oggi siamo tutti un po’ più soli. Ma sempre arricchiti e resi felici dalla musica immortale che continuerà a risuonare, dolce e struggente. Salutiamo dunque con un immenso abbraccio quest’uomo che se n’è andato così com’è vissuto, con signorile riserbo ed ammirevolissima umiltà. L’umiltà dei grandi, che gli fece dire, ad un intervistatore che magnificava la sua prodigiosa fecondità: “Il fatto che io scriva molto, in parte è vero, in parte no. Forse organizzo meglio il mio tempo rispetto ad altri. Ma al confronto con compositori classici come Bach, Frescobaldi, Palestrina o Mozart, mi definirei un disoccupato”. Riserbo e umiltà, qualità invero rare, confermate anche dall’ultimo atto, il necrologio che si è scritto e che ha voluto lasciare ai suoi cari, quasi intimorito dal clamore mediatico che la sua morte avrebbe indubitabilmente suscitato, dalla volontà di funerali da tenere in forma privata, per “non disturbare”.
Grazie, Maestro, per tutto ciò che ci ha regalato, e per quest’ultimo insegnamento. Che la terra le sia lieve.

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