Il mondo della lirica soffre con particolare acutezza dello stop agli spettacoli da Covid19. Molti artisti e molti lavoratori non possono avere il bonus da 600 euro o avere altre misure decise per l’emergenza. Con la rivista online Wondernet Magazine diretta da Laura Saltari, pubblichiamo questo servizio con la lettera aperta partita dall’iniziativa della cantante Alessandra Gioia e con le dichiarazioni di Giampaolo Bisanti, direttore d’orchestra, Stefania Bonfadelli, regista, e Bruno Nicoli, direttore dei complessi musicali di palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano che tra l’altro spiega perché l’opera non può sopravvivere nel web.
di Laura Saltari
Teatri chiusi e sipari calati proprio nel momento clou della stagione. Migliaia di lavoratori fermi, in difficoltà e senza prospettive di ripresa.
La crisi della cultura è stata ignorata dalla politica. Nessuna task force, tra le tante istituite per far fronte all’emergenza, è stata attribuita dal governo al settore dello spettacolo. Come se l’arte e tutti i suoi lavoratori non meritassero alcuna considerazione.
Tra tutte le arti rappresentative, l’opera lirica è quella che rischia di pagare le spese più alte di questa crisi.
Le difficoltà dei lavoratori del teatro d’opera in Italia sono antecedenti alla pandemia, per svariati motivi. Il loro cachet è forfettario, e non prevede spese di trasporto, di alloggio. Le prove non sono retribuite, il compenso è solo sulle esibizioni. Inoltre, in caso di malanno o indisposizione, non esiste un indennizzo. In quel caso, nulla viene corrisposto all’artista, né il cachet della serata, né un rimborso per le spese sostenute per recarsi in loco.
Ora, in situazione di emergenza mondiale, tali criticità si fanno ancor più drammatiche.
Nel settore, alcuni lavoratori “dipendenti” si trovano in cassa integrazione sopportando comunque enormi difficoltà, ma la maggior parte degli addetti lavora come autonomo.
Per avere diritto al famoso bonus di 600 euro o alla Naspi è necessario dimostrare un versamento minimo di giornate di contributi Enpals, ma gli intermittenti spesso non hanno fortuna in tal senso o non riescono a vedersi pagati i contributi.
Sarebbe auspicabile da parte delle istituzioni o enti preposti, la creazione di una cassa di indennizzo o di un fondo dello spettacolo, per poter tutelare e sovvenzionare economicamente gli artisti soprattutto in quei casi in cui non possono portare a termine il loro impegno.
Ad esempio, in caso di malattia, pur senza riconoscere l’intero cachet, sarebbe importante l’istituzione di un’assicurazione che possa coprire alcune spese. Oppure riconoscere al lavoratore del teatro d’opera una diaria per il periodo di prove, come avviene per gli attori. Sarebbe già una forma di tutela per l’artista, che avrebbe una retribuzione a prescindere dalle serate di esibizione. Tutti diritti ad oggi inesistenti.
Ecco una lettera aperta, partita dall’iniziativa della cantante lirica Alessandra Gioia, che ha raccolto le voci di alcuni autorevoli esponenti del mondo lirico che esprimono il loro punto di vista in un momento in cui anche il teatro d’opera sta rischiando di avere gravi conseguenze per la pandemia che sta attraversando tutto il mondo.
La lettera aperta della lirica: “Tutele anche per chi lavora nei teatri d’opera”
Alessandra Gioia, cantante lirica professionista: non è solo colpa del virus
Questo virus è stato come uno tsunami che ha travolto tanti, troppi. Molti di noi si sono dovuti fermare: alcuni anche alla vigilia di nuovi importanti progetti. Io stessa, prima di questa pandemia, ero in procinto di andare in scena con uno spettacolo che naturalmente è sfumato come per tutti i miei colleghi. Si è quindi venuta a delineare, al fianco della tragedia delle vittime per covid 19, anche un’altra situazione, sicuramente meno grave dal punto di vista della vita in sé, ma che ha cominciato a far emergere momenti di disperazione in taluni.
L’opera lirica conta l’impiego di un gran numero di persone indispensabili per la realizzazione di uno spettacolo: coro, orchestra, solisti, registi ma non solo; corpo di ballo, figuranti. E poi tutto i maestri di palco, sala, preparatori di spartito; ed ancora i lavoratori del backstage che davvero non sono pochi. E ancora i truccatori, i costumisti. Una mole numerica imponente ma il cui comune operato dà vita ad una magia capace di emozionare coloro senza i quali nessuno spettacolo andrebbe in scena: il pubblico.
Ad oggi tornare a questa magia in tempi brevi e nella stessa modalità di prima della pandemia sembra sia impossibile. Ed allora ci si chiede: quale sarà il futuro per tanti di noi? E rifletto anche sul fatto che forse non è solo il virus l’unico colpevole. Perché certi problemi esistevano anche prima.
Ritengo quindi fondamentale pensare ad una futura ripartenza con nuove premesse, in cui anche aspetti atti ad una maggiore tutela per noi lavoratori del teatro d’opera possano trovare uno spazio di seria discussione e concreta risoluzione con degli interlocutori che vogliano accogliere le nostre proposte, affinché ogni artista possa tornare ad esprimere il proprio potenziale anche con garanzie diverse.
Giampaolo Bisanti, direttore d’orchestra: un flautista non può suonare con la mascherina
La drammatica situazione dell’emergenza pandemica ha messo il settore dello spettacolo dal vivo in una situazione di difficoltà senza precedenti nella storia.
La particolarissima forma d’arte del teatro d’opera sembra essere perfetta per far sì che un virus, subdolo come questo, possa dilagare incontrollato.
Se infatti valutiamo gli artisti coinvolti in una produzione operistica, difficilmente si potrà ipotizzare una seria ripresa dell’attività fin quando la scienza non avrà trovato una cura definitiva e/o un vaccino.
Ipotizzare il distanziamento per il pubblico è ancora un progetto fattibile, arduo ma ipotizzabile.
Il distanziamento e l’uso dei dispositivi di protezione personali per i musicisti ed i cantanti invece è altro discorso. Se un violinista può suonare con la mascherina, uno strumentista a fiato ed un cantante non possono invece farlo.
La possibilità di creare “barriere” in plastica tra alcune sezioni dell’orchestra potrebbe funzionare, ma rimarrebbe comunque il problema del coro… è insomma un rebus da cui difficilmente si può venire a capo.
Inoltre c’è un problema che riguarda il pubblico; la gente ha desiderio di fruire della musica dal vivo, ne sono certo. Ma non dovrà passare del tempo prima che ognuno si senta in sicurezza ad andare in un luogo chiuso per ascoltare un’opera o un concerto? Le persone sono state molto intimorite e spaventate da questo evento storico e, in particolare gli anziani, saranno molto preoccupati ancora per molti mesi…
L’orizzonte per il nostro settore è buio ma noi che svolgiamo questo mestiere dobbiamo tenere duro e sperare nella velocità della scienza che, oggi, fa passi da gigante in tempi veramente sorprendenti.
È sempre, come nella musica, una questione di tempo! Auguro a tutti i meravigliosi medici, veri Angeli di questo momento così terribile, ed ai ricercatori di procedere “Adagio con moto”.
Stefania Bonfadelli, regista: mascherine, guanti, orchestre e cori ridotti
Credo che dovremmo comunque pensare a una apertura dei teatri e festival all’aperto con mascherine e guanti per il pubblico, organici orchestrali e corali ridotti, magari con un po’ di amplificazione e con delle regie ripensate per non far cantare gli artisti molto vicini. Certo, questa non può diventare una regola ma penso che si debba ripartire. Anche in sordina, ma dobbiamo ripartire. Dobbiamo dare un segnale.
Non sono molto d’ accordo su una piattaforma streaming per l’opera, non credo che accontenterebbe i melomani e non darebbe un adeguato supporto economico a interpreti e maestranze perché il nostro lavoro non è intrattenimento o almeno non solo, ma è arte che ha bisogno del contatto reale con le persone. Ha bisogno di umanità. Per questo è nata.
Il nostro è un Paese in cui la cultura fa da traino sociale ed economico, siamo un paese umanista e tradizionalista, non possiamo ignorare questa fetta enorme di lavoratori dello spettacolo che hanno eletto la musica e l’arte come religione.
Bruno Nicoli dalla Scala: l’opera è dal vivo, in tv e sul web diventerà museo
Bruno Nicoli è direttore dei complessi musicali di palcoscenico del Teatro alla Scala.
Tra gli effetti più o meno tragici generati da questa pandemia vi è un paradosso eclatante di cui nessuno, o quasi, pare accorgersi.
Tutti costretti a casa, giustamente preoccupati di perdere beni essenziali come la salute e il lavoro futuro, abbiamo improvvisato un nuovo vivere quotidiano.
Ci siamo ritrovati a cantare o suonare assieme ai balconi per sentirci parte di una comunità, per riempire le nostre giornate abbiamo ascoltato musica in quantità in televisione o sul web, abbiamo visto una marea di film e serie tv.
Insomma, nell’emergenza tutto ciò che è ‘arte’ o ‘spettacolo’ ha accompagnato le nostre giornate.
Forse non ci è stato necessario per sopravvivere, certamente lo è stato per ‘vivere’. Umanamente, degnamente.
Veniamo al paradosso: ci nutriamo di musica e spettacolo più di prima, ma non ci curiamo del fatto che alcuni settori che li producono stanno piombando in una profonda crisi.
Ad esempio, tutti i teatri sono chiusi a tempo indeterminato.
II settore dell’opera, quello che per intenderci ha generato il Vincerò che tutto il mondo oggi canta (ignorandone persino l’origine), è uno dei più danneggiati dalla situazione pandemica attuale.
Popolato da migliaia di lavoratori, molti dei quali precari, è tuttora parte irrinunciabile della nostra immagine nel mondo, e permea tuttora, spesso senza che la gente ne sia pienamente consapevole, la nostra musica quotidiana.
Crea anche un indotto economico non indifferente.
La lirica è essenzialmente uno spettacolo dal vivo che mobilita centinaia di persone che fanno musica a stretto contatto, di fronte a un pubblico assiepato a teatro o nelle arene all’aperto: è evidente che sarà una delle ultime attività pubbliche a riaprire, perché i suoi pregi rappresentano oggi il suo maggior difetto.
Dobbiamo renderci però conto che se perdiamo il ‘motore’ dell’opera dal vivo alla lunga perderemo il resto che ne deriva.
Perderemo il mercato, perderemo parte della nostra immagine italiana, perderemo una parte di noi.
L’opera in tv o sul web, in questi giorni così miracolosamente diffusa, diventerà alla lunga un museo impolverato di vecchie registrazioni. Morte.
Il rischio concreto più imminente è che molti professionisti saranno presto costretti a cercarsi un altro lavoro, gettando alle ortiche competenze e abilità maturate con gli sforzi e la passione di una vita.
Quali dunque le soluzioni per resistere subito, in attesa di tempi migliori?
Forse spettacoli all’aperto, magari amplificati, con più facilità di distanziamento sociale. Forse teatri aperti per metà, alternando i posti in platea o aprendo solo i palchi. In emergenza si può anche tentare, ma quanto pubblico arriverà?
Le masse artistiche al lavoro, dove il distanziamento sociale è impossibile, andrebbero comunque monitorate come i calciatori, con test sierologici settimanali. Fantascienza?
Non lo so, comunque qualcosa andrà sperimentato, dovremo provarci.
Al momento intanto si parla di incoraggiare l’opera dal vivo in streaming, magari a pagamento.
Certo potrà aiutarci, persino pubblicizzare un poco questo tipo di spettacolo, ma il ritorno economico è assai dubbio, sicuramente insufficiente a sostenere i lavoratori della lirica che come tutti, per dirla brutalmente, devono poter mangiare.
Si impone quindi un sforzo di fantasia e un sacrificio economico di tutti i lavoratori dell’opera, ma questo non può rappresentare una foglia di fico per l’assenza di scelte politico-economiche chiare.
Per avere ancora cultura, musica, bellezza, tutto ciò che è la nostra immagine nel mondo e parte del nostro quotidiano, la politica, dopo anni di smobilitazione e scarsissimo sostegno, si dovrebbe far carico sostanziale del patrimonio del teatro musicale italiano attuale e dei sui professionisti, siano essi dipendenti o artisti a prestazione.
Ricordiamo che essi, a differenza di avvocati, imprenditori, negozianti, dovranno per legge rimanere fermi ben più di questi due o tre mesi di forzata clausura.
È il momento che le nostre istituzioni politiche, sempre così attente e fisicamente presenti a celebrazioni simboliche come il 7 dicembre scaligero, si ricordino e diano un significato culturale consapevole di quelle loro presenze.
Solo così oggi, nel momento del bisogno, potremmo comprenderle anche noi.