di Riccardo Ventrella
Raramente i dischi portano nel titolo la data di uscita. Miramare 19.4.1989 avrebbe dovuto chiamarsi in realtà Miramare 4.4.1989, giorno del compleanno del suo autore. Uscì poi in ritardo, da qui il cambiamento. La scelta suffraga comunque l’ipotesi che Francesco De Gregori volesse fissare un hic et nunc, nell’anno in cui finivano i favolosi Ottanta e nulla era ancora praticamente accaduto: le proteste di piazza Tienanmen datavano qualche giorno, i regimi comunisti erano ancora tutti in piedi, Forlani regnava come segretario della Democrazia Cristiana. Pure, qualcosa stava per cominciare, e De Gregori estrae dalla giberna uno dei suoi dischi più “politici”, nel quale affronta una serie di temi, dal degrado della politica, alla caduta della morale, al peggioramento progressivo dell’ambiente.
Tutto sarebbe accaduto di lì a poco, e continua ad accadere per riprendere la tesi del libro di Paolo Morando Anni ’80. L’inizio della barbarie, secondo la quale il cattivo seme del tempo che viviamo, almeno in Italia, è stato gettato in quegli anni. De Gregori aveva aperto il decennio con la visione altrettanto significativa di Titanic (come a dire che c’è sempre il rischio di qualche iceberg, anche nei mari migliori) e lo chiude con Miramare.
Un brano riassume, come in un catalogo, tutti i temi dell’album, ed è Bambini venite parvulos: sotto l’aspetto evangelico del titolo si nascondono il trasformismo, il qualunquismo, le connivenze, il malgoverno. Un brano profetico, sicuramente.
Marzia Stevenson Maestri, in una straniante inversione dell’effetto-Zapruder, ha montato in video immagini del presente su quella musica, cercando di ricalcarne le profezie e insieme di tracciare un riassunto della vicenda della pandemia. Un montaggio analogico da avanguardia russa, che non sarebbe dispiaciuto ad Ėjzenštejn, per dire che “gli elementi a disposizione non consentono analisi” – celebrazione della sconfitta dei numeri in questa infodemia – e che c’è chi ha indossato le nuove maschere e ricomincia a respirare. L’abbandono ha gettato sabbia sulle autostrade, ci ha sporcato la vista, ci ha gettati nella pornografia del presente. Siamo dominati dal carisma di Mastro Lindo, dall’uno vale uno, dalla tentazione dell’uomo forte, anche se campeggia dall’etichetta di un detersivo. Compie esattamente trent’anni, Bambini venite parvulos: ma attraverso il video tutto pare realizzato integralmente oggi.
Aprendo altre pagine di quell’album saremmo colpiti da illuminazioni simili: il ritratto fulminante e cattivo di Dr. Dobermann, la rassegnazione estatica della title-track, le negazioni di Cose e Pentathlon, la contemplazione di Lettera da un cosmodromo messicano. Se qualcuno glielo chiedesse, De Gregori negherebbe ovviamente di essere un profeta, o qualcosa di anche lontanamente simile. E per quel che si può rammentare, in pochi all’epoca consideravano così lungo lo sguardo di quel disco. Marzia Stevenson Maestri, lavorando sulla pandemia, estrae da quelle parole il senso della loro lungimiranza, come la recita di un breviario che improvvisamente si è scoperto attuale e quotidiano, verificabile e non più impresso su una carta vergata di fantasia.
Finisce con un soffione, il video. Inno alla leggerezza, ma anche alla volubilità dei tempi e al fatto che soffiando o starnutendo si diffonde il virus. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. E De Gregori non ha mai più fatto un disco così. Ne ha confezionati di belli, magari per singoli brani; ha cantato Dylan e il folk italiano; ma un disco così “politico” non l’ha più fatto. Forse perché col tempo davvero non “abbiamo dovuto vedere niente che non abbiamo veduto già”. Anche se questi ultimi tempi, e il video di Marzia Stevenson Maestri ne è la prova tangibile, paiono smentire questa opzione. Nessun calcolo ha nessun senso.