Pietro Cantarelli: “Sanremo fa paura però è unico. Vera la lite tra Bugo e Morgan” | Giornale dello Spettacolo
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Pietro Cantarelli: “Sanremo fa paura però è unico. Vera la lite tra Bugo e Morgan”

Parla il tastierista, compositore e produttore: “I giovani talenti, difficili da inquadrare e ricchi di idee nuove”. A Sanremo Tosca ha interpretato la sua canzone “Ho amato di tutto”

Pietro Cantarelli: “Sanremo fa paura però è unico. Vera la lite tra Bugo e Morgan”
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28 Febbraio 2020 - 11.12


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Marco Buttafuoco

Pietro Cantarelli, tastierista, compositore e produttore discografico parmigiano, ha cinquantatré anni e vanta una carriera musicale di tutto rispetto, al centro della quale c’è la lunga collaborazione, anche in veste di produttore, con Ivano Fossati. Ha collaborato anche con artisti del calibro di Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni, Giorgio Gaber, Roberto Vecchioni, Samuele Bersani, Cristiano De André.
All’ultimo Festival di Sanremo ha portato una sua canzone, affidata all’interpretazione di Tosca, quella Ho amato di tutto, che è stata giudicata dalla critica il miglior brano del festival, vincendo il premio Bigazzi e per il brano, e il premio Endrigo per l’interpretazione. Un musicista raffinato, dalla mente aperta, che ascolta tutti i tipi di musica e che legge tutti i libri possibili (è innamorato di Jorge Luis Borges). Più che dei generi, quando gli si chiede della musica che lo ha influenzato, parla di quattro maestri. Uno è, naturalmente Fossati, altri due sono Franco D’Andrea, punto di riferimento del jazz Italiano fin dai lontani anni del gruppo fusion Perigeo, con il quale Cantarelli ha studiato il pianoforte, e Juan Carlos Flaco Biondini, il chitarrista argentino di Francesco Guccini (“Mi ha preso sotto la sua ala fin da quando avevo diciassette anni, insegnandomi tanto e facendomi suonare con lui”.) Ultimo, ma non meno importante è Beppe Quirici, da cui Cantarelli dice di aver appreso tanto, in termini di apertura del linguaggio sonoro e di produzione discografica.

Che impressioni ha ricevuto dal Festival. Era la prima volta che partecipava?
No, ero già stato come compositore. Mai come musicista ( ha accompagnato Tosca al piano durante l’esecuzione). Che dire? Ho ritrovato quest’anno l’aria di sempre, l’aria di confusa kermesse, dove tutti corrono e si agitano, dove davanti al teatro c’è sempre un muro di folla che aspetta qualcuno per i selfie. Qualcuno, basta che sia qualcuno legato al festival, non cercano solo i cantanti. Qualcuno usa ancora il vecchio taccuino d’appunti per guadagnare un autografo, anche se è un rito in disuso dopo l’avvento dello smartphone. C’è un’atmosfera nervosa, eccitata. Difficile immaginare il contrario dal momento che i media enfatizzano tutto all’estremo. La storia di Morgan e Bugo era vera. Hanno proprio litigato, ma per il Festival è stata una fortuna, ha attirato ulteriormente l’attenzione. La macchina del Festival fagocita tutto e tutti a suo favore. Però il palco dell’Ariston è un’esperienza unica. Tutti lo temono, io stesso l’ho temuto. Entri in scena e sai che su quelle tavole sono passati Modugno, Nilla Pizzi, lo stesso Louis Armstrong. Io ho suonato spesso lì, soprattutto nel contesto delle rassegne del Club Tenco. Esibirmi durante il festival è stato diverso, perché ti confronti con la storia sentimentale dell’Italia. È un’esperienza importante, inutile negarlo.
Quindi, secondo lei esiste ancora, al tempo della globalizzazione, un fenomeno definibile come canzone italiana?
Certamente ed è caratterizzato dalla melodia, da questo talento italiano per il canto, che è anche racconto in musica. Veniamo dalla melodia napoletana, dall’opera lirica. Alcuni colleghi americani mi hanno detto che la loro musica è più ricca dal punto di vista armonico, ritmico, da quello della qualità dell’incisore, ma sentono la mancanza di un estro melodico che a loro dire, è squisitamente italiano. Questo non vuol dire che la nostra canzone sia un fenomeno a sé stante, una bolla di vetro nel quale non entrano influenze esterne. Napoli è stata, come molti porti, un immenso bazar musicale nel quale arrivava musica araba e nord africana, fado, musica brasiliana. O Sole Mio è basta su un ritmo di Habanera e non c’è da meravigliarsene.
Quindi, si potrebbe anche rivalutare la musica di consumo, la canzonetta degli anni cinquanta e sessanta?
Naturalmente. Prendiamo canzoni balneari come quelle di Edoardo Vianello, Abbronzatissima, Pinne, Fucile e Occhiali che io ho ascoltato da bambino ( i miei quattro fratelli, tutti più grandi di me ascoltavano ogni musica possibile e riempivano la casa di dischi che io religiosamente conservato); ebbene quelle canzoncine sono piccoli gioielli di artigianato musicale. Orchestrazione curata, armonie corrette, esecuzioni impeccabili per quelle che dovevano essere solo pezzi d’intrattenimento, da bar di spiaggia. Erano lavori ben eseguiti e ben incisi, con versi insignificanti ma scritti ugualmente bene. Non è un caso che molte di quelle canzoni erano arrangiate da un giovane musicista, Ennio Moricone e da altri compositori di talento. Voglio dire che non bisogna disprezzare l’artigianato di qualità. Io sono cresciuto ascoltando i Pink Floyd, il jazz e la musica d’arte, ma devo dire che la cosiddetta “musica “ di consumo aveva, almeno fino agli anni una sua rispettabilità, una sua dignità professionale .
Poi è venuta la “rivoluzione” dei cantautori.
Sì, ma non è una storia lineare. È cominciata con artisti quali Umberto Bindi e Gino Paoli, che erano molto preparati anche da un punto di vista musicale e non solo bravi autori di testi. Poi, per un lungo periodo, i versi, la parola, hanno prevalso sulla qualità della musica. Bastava una chitarra per salire su un palco. Erano gli anni della grande contestazione, gli anni dei messaggi sociali, gli anni di nuove visioni, degli ultimi sogni. Io credo che il cantautorato italiano ha raggiunto la sua maturità quando i vari autori hanno cominciato ad aprirsi ai linguaggi musicali più diversi, appoggiandosi a strumentisti ed arrangiatori di grande qualità; De André collaborò con Mauro Pagani ed ebbe Mario Arcari (Che lavorò anche con Fossati) come fiatista fisso nel suo gruppo, Paolo Conte aveva in squadra Jimmy Villotti, Francesco Guccini suonava con Flaco Biondini e Vince Tempera. Sì, dischi come Creuza de Ma, solo per citare il più celebre, erano opere d’arte. Un’arte nuova basata su testo e musica fusi in un linguaggio altro. La questione se i cantautori siano anche poeti è poco interessante. Puoi leggerli anche come poeti, ma i loro versi hanno sempre bisogno della musica con la quale sono stati creati. Ivano dice sempre che i poeti fanno un altro mestiere e che i paragoni sono oziosi.
Come vede la situazione attuale della canzone italiana ?
Si comincia, forse, a vedere la luce alla fine del tunnel che abbiamo imboccato alla fine degli anni ’90. Sta emergendo una nuova generazione di giovani pieni d’idee, di freschezza. Ho una prospettiva d’osservazione previlegiata avendo la fortuna di essere insegnante all’Officina Pasolini, un’istituzione romana di cui Tosca è ideatrice e animatrice insieme al marito Massimo Venturiello e di cui è presidentessa onoraria nientemeno che Franca Valeri. Ecco in quell’ambiente straordinario, in cui si studiano la canzone, il teatro e la multimedialità, in ogni aspetto, anche in quello strettamente produttivo, in cui gli allievi sono selezionati con bando pubblico, sento il nuovo che arriva. Incontro ragazzi pieni di vita e d’idee: magari sono disorganizzati e troppo tumultuosi, difficili da inquadrare, ma io “invidio” la loro capacità di pensare in termini diversi, di aprire strade. La creatività non è morta. Lo vedo anche come docente in un’altra situazione di alta formazione l’Accademia Bolognese del Cantautore.
Però questi talenti, lo converrà, sono attesi da un futuro ingrato. Gli orchestrali di Sanremo hanno ricevuto, per giornate piene di prove e serate lunghissime sul palco, compensi indegni.
È vero. Noi cerchiamo anche d’insegnare loro a combattere queste battaglie, che saranno fondamentali nel loro futuro. Il lavoro intellettuale sottopagato è una piaga molto italiana. Già in Francia la situazione è diversa. Questo paese ha forse bisogno di una rivoluzione; non tanto in senso politico, se siamo governati da una classe dirigente mediocre, è altrettanto vero che essa è stata espressa da un libero voto. La politica ci rappresenta, non è un corpo estraneo, un’invasione aliena. Occorrerà, speriamo che non arrivi tardi, una rivoluzione culturale. Non so immaginarla, ma ne sento la necessità.

Come sta andando, dopo il festival, Ho amato di tutto?
Molto oltre le previsioni, quelle di Tosca e le mie. La canzone è molto ascoltata sulle piattaforme digitali, ha avuto ben più di un milione di contatti. Alcune radio commerciali la trasmettono ed è già un buon risultato, poiché non è certo una canzone adatta a quel tipo di pubblico. Personalmente sto vivendo, grazie, a questo successo, un’esperienza emotivamente molto strana, mai provata in tanti anni di carriera. Dopo Sanremo ho ricevuto tantissime richieste d’amicizia su FB. Persone sconosciute, che mi volevano ringraziare per questa canzone. Alcuni mi hanno detto che l’ascolto è coinciso con un momento particolare, triste della loro vita. Un divorzio, la morte di un partner. Non potrò certo rispondere con un like né con qualche frase fatta a persone che mi hanno aperto il loro mondo. Sono commosso, attonito.

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