Marco Buttafuoco
Bobo Rondelli, il “famous local singer” livornese, si cimenta con la scrittura e pubblica, con Mondadori, questa buona autobiografia (Cos’hai da guardare, Mondadori 2019, 180 pagg, 18 €). La sua storia l’aveva già raccontata, per sommi capi, Paolo Virzì, conterraneo e coetaneo, in un film del 2009, “L’uomo che aveva picchiato la testa”, immergendola in quella “livornesità” che il regista aveva già cantato nel 1997 in “Ovosodo”. È un libro, questo di Rondelli, piacevolissimo e diseguale, malinconico è un po’spaccone. La narrazione alterna momenti di lirismo trattenuto, sofferto, a lampi di umorismo labronico dissacrante e greve.
È sempre sincero Rondelli, anche quando, a volte, scade in qualche banalità. Che nel movimento nato nel 1968, ad esempio, ci fossero anche fenomeni modaioli e che molti militanti fossero di provenienza alto borghese, è abbastanza scontato e non aiuta a capire la ricchezza di quegli anni. D’altronde lui stesso definisce il se stesso di allora, come una sorta di qualunquista. Forse lo è anche oggi, ma è comunque un qualunquista che partecipa a concerti di solidarietà con le Ong, dice parole chiare sui migranti, cita Nicola Sacco quasi all’inizio della sua autobiografia ed è orgoglioso dell’antifascismo genico della sua città.
Non è un intellettuale Bobo Rondelli, e non vuole esserlo. Come recita l’incipit del libro “C’è chi scrive romanzi e chi li legge. Io li vivo sulla pelle.” La sua scrittura è semplice, essenziale, (“non posso essere uno scrittore vero, poiché non sono un lettore abituale” ha detto, lucidamente, in un’intervista), ma funzionale a raccontare la vita di un ragazzo di provincia inquieto e confuso, talora goffo, pigro, in guerra continua con un padre legato a valori molto tradizionali: il senso pratico, il lavoro duro (e fisso), la preoccupazione per il futuro. Una scrittura adatta anche a raccontare i dubbi dell’adulto, i suoi rimorsi verso i genitori, la consapevolezza dei propri limiti, il rifiuto dell’esperienza della droga.
Alla fine la lettura diverte, anche perché evoca continuamente i paesaggi e lo spirito di quella strana città-isola che è Livorno, la cui area fu popolata, dalla seconda metà del XVI secolo, da un’umanità, parole di Bobo, “di scappati di casa, ladri, prostitute, prigionieri politici a cui i Medici offrirono una casa in un luogo infestato da zanzare e malaria, mentre tutto il resto del mondo li schifava”. Un unicum nella toscana dotta e raffinata di quei secoli, ma anche un’isola in se, perché dietro al popolamento di un’isola c’è quasi sempre una storia di naufragio, una fuga, un cercar riparo, una storia di libertà.
Rondelli, in questo libro e nelle sue canzoni, canta sempre questa fauna naufraga ma anche refrattaria alle regole: prostitute, vagabondi, vecchi pedofili ridotti a relitti, orsi in gabbia, aspiranti suicidi, intellettuali etilisti e inconcludenti. Un altro cantautore livornese di una generazione precedente, Piero Ciampi, parlava di giocatori sfortunati, pittori ciechi, musicisti sordi, ubriachi finiti in un fosso. Livorno è una città libertaria, che ha sempre rifiutato di punire la diversità religiosa, razziale e di scelte di vita. Non è una città di provincia, è, appunto, una sorta d’isola, dove si respira una saudade vera, nascosta dietro la battuta feroce, la parola grassa.
Alla fine “ Cosa hai da guardare” è un bel libro, pieno di parole di libertà.