Amy Winehouse, la cattiva ragazza con la voce nera che ancora ci manca

La morte di un'artista magnifica e improbabile, bellissima e spigolosa il cui destino era scritto tra un tatuaggio da pirata, una linea di eye liner, scarpe troppo alte e roba troppo forte

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23 Luglio 2019 - 10.55


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di Daniela Amenta

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Deve essere stato facile chiuderla nella sacca rossa, l’ultima concessione glam. Un metro e 59 centimetri per 45 chilogrammi appena. Facile tirarla su, portarla via, sotto il cielo color latte di Londra. Quarantacinque chilogrammi appena sconquassati da droghe, draghi e tatuaggi da pirata. Amy Winehouse il 23 luglio del 2011 usciva di scena dal palchetto privato, numero 30 di Camden, e suo malgrado entrava nella storia. Lei che proprio non aveva voglia di finire nell’almanacco del rock’n’roll, immortalata nel memorabilia dei fan affranti,  sfruttata dai parenti/familiari squalo, dai manager pronti a riciclare anche l’ultimo nastro.  In questo anniversario mesto non ci resta che quest’ultima immagine, la più vivida. Un sacco della polizia mortuaria. E due dischi.

Che Amy sarebbe morta giovane lo sapevano tutti. Tutti quelli che l’avevano ascoltata con un po’ di cuore, oltre che con le orecchie. Il testamento era lì, a portata di mano, nota dopo nota. Ma a ognuno i suoi demoni, il proprio destino. Lei li aveva incisi tra l’eye liner e le corde vocali. Una voce magniloquente nonostante lo sterno minuscolo. Fragile come una meringa. Eppure quando cantava, la signorina Winehouse pareva una potente, solidissima ragazza nera. La reginetta sboccata che intonava melodie antiche, complesse. Perché Amy amava il jazz, il soul, il r’n’b, il blues. E soprattutto conosceva quei suoni che sono graffi dell’anima e dolori: Carole King, Donny Hathaway, Sarah Vaughan. Di lei il Guardian scrisse: “La musica di Amy Winehouse è da qualche parte tra Nina Simone e Erykah Badu”. E’ vero.
Pile di dischi importanti, cruciali, divorati dalla piccola ragazza con il seno da pin-up che usciva in vestaglia a buttare l’immondizia, rilasciava interviste al citofono, s’invaghiva di brutti ceffi. Perennemente in bilico tra scarpe troppo alte e roba troppo forte. Per questo, per questo suo ondeggiare infinito tra il culto e la mestizia dell’esistere, tra lo sguaiato e la nobiltà di uno sguardo disperato, per questo, per tutte le note stonate che non avrebbe dovuto prendere, l’amavamo. Noi amavamo la ragazza che si sentiva la meno amata.
Lo scarto tra l’aspetto e la voce l’aveva resa star, dilatandone la solitudine, la fatica di stare al mondo. Talento ne aveva. Tanto quanto ne buttava via. Lo sapevamo noi, lo sapeva benissimo lei, che gli dava il valore di un dono temporale, fugace. “Ho fatto un disco, ma in fondo è solo un disco”. “Canto, certo canto. Ma potrei fare anche la brava moglie”.

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Una cattiva ragazza che diceva parolacce, si faceva, collezionava storie sbagliate. E ora, a proposito di errori, il gioco dei rimandi e delle citazioni pare fuori luogo. Come un sacco mortuario rosso. Rosso come uno smalto sfacciato, un rossetto vistoso. L’ultimo paradosso.

Inutile paragonarla a Janis Joplin che sapeva stare dritta sul palco, anche dopo una pera, e aveva voce di catrame fuso. Billie Holiday, invece, le avrebbe regalato una gardenia bianca e magari avrebbero fatto a botte. La parabola di Amy nasce e finisce con lei, nell’arco di 27 fottuti anni. Lei, unica diva improbabile. Unica. Dunque questa storia si conclude con una sacca rossa, con la faccia triste di Reg Traviss tra i fiori di girasole, tra le banalità di mamma, papà e Circo Barnum discografico, resi celebri da una signorina bellissima e spigolosa.

Non ne nasceranno altre come lei. Per questo ci mancherà.
Ognuno ha un blues da piangere. Talvolta è alcolico, sbilenco e pazzo. Talvolta il blues è una donna. Con gli occhi tristi. Di foglia.

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