Tra Modugno e De Gregori, quando la canzone italiana fa la storia

Un libro di Jacopo Tomatis ricostruisce decenni di musica. Dove l’italianità è spesso una pura invenzione

Tra Modugno e De Gregori, quando la canzone italiana fa la storia
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10 Maggio 2019 - 18.25


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di Marco Buttafuoco

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Sono tempi in cui si discute se la musica leggera (o pop, o di consumo) debba avere maggiore spazio di quelle “straniere” nella programmazione dei media; può apparire un dibattito surreale, ai tempi di Internet e della musica liquida, ma il tema non è nuovo. È almeno dagli anni venti del secolo scorso che viene agitato e brandito dai sostenitori di un’improbabile italianità della nostra canzone. In questo bel libro (Jacopo Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Il Saggiatore, 2019, pp. 810, € 38, ebook 15,99) l’autore ricostruisce con precisione e largo uso di documenti la nascita di questo mito e, contemporaneamente, ne evidenzia le contraddizioni più marcate. Una per tutte: “O Sole Mio” è scritta su un ritmo di Habanera. Altre canzoni celeberrime sono scritte su ritmo di tango (“Miniera”, “Balocchi e profumi”) o di Beguine (“Grazie”) dei Fiori, mentre le contaminazioni con lo swing afroamericano sono costanti.
L’italianità è, spesso, una delle tante, invenzioni della tradizione descritte tanto efficacemente da E.J Hobsbawm. La stessa aspirazione del fascismo a dotarsi di un jazz nazionale fa parte di questo meccanismo ideologico, che non va limitato solo al ventennio fascista. Per tutto il dopoguerra, fino agli anni sessanta, le programmazioni musicali e radiofoniche (e televisive) restarono fedeli al cliché del bel canto italico, di una nostalgia manieristica, di un’Italietta chiusa in se stessa e sospettosa delle mode stravaganti che arrivavano da oltreoceano. La cultura di sinistra, attentissima al cinema, mantenne nel frattempo, un atteggiamento distaccato, adorniano, nei confronti della musica d’intrattenimento, e vagheggiandone una popolare non meglio definita.
La canzone e la sinistra
È solo dalla fine degli anni’50 che, con Cantacronache si cominciò a pensare a un uso politico della canzone. Poi verranno i cantautori, e si comincerà a parlare della musica leggera come forma d’arte. Tutto il lungo appassionato e feroce dibattito sulla musica che agitò la sinistra, soprattutto negli anni ’70 è ricostruito benissimo da Tomatis. Non è esagerato definire questo libro imperdibile soprattutto per chi ha vissuto in diretta quegli anni turbolenti. Quella discussione, spesso anche un po’ sgangherata e violenta non fu solo un riflesso della politica tumultuosa di quei decenni: al contrario era un elemento fondamentale del dibattito culturale. La canzone, sostiene Tomatis, non “non rispecchia la società in cui esiste. Casomai, esiste in stretto rapporto con la cultura in cui viene creata e fruita, e contribuisce essa stessa a modificare quella cultura”.
Anche in campo musicale si cercava, infatti, a sinistra, una via nuova, nazionale, da seguire. Anche in tema di canzonette le formazioni progressiste, parlamentari o meno, di dividevano con una virulenza che oggi appare un po’ assurda. Non manca niente nel racconto di Tomatis: gli Inti Illimani che insegnarono una musica politicizzata ma di elevato spessore esecutivo, il festival di Parco Lambro, il Nuovo Canzoniere Italiano, la canzone politica a Canzonissima del 1974, il processo “popolare” a De Gregori”. E dopo il picco delle illusioni rivoluzionarie, il cosiddetto riflusso, rapido e spiazzante; anche questo descritto benissimo nelle parti finali del saggio.
Un libro importante e impegnativo, privo di ideologismi, poderoso come numero di pagine ma mai banale e mai scontato, che cattura l’appassionato dall’inizio alla fine .

Jacopo Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Il Saggiatore, 2019, pagg 810, €38, ebook 15,99.

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