Ernesto Bassignano: «Canto il Paese che resiste e canta "Bella ciao"»

Il cantautore sigla nuove canzoni con "Il mestiere di vivere". E parla del Folk Studio, di De Gregori, del concerto per l'Anpi il 25 aprile, di Zingaretti, Pisapia ...

Ernesto Bassignano: «Canto il Paese che resiste e canta "Bella ciao"»
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10 Aprile 2019 - 17.19


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di Giordano Casiraghi

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In un mondo che cambia in fretta, dove al Festival di Sanremo ci vai solo con tanto di rapper al seguito, dove sempre a Sanremo, ma al Club Tenco, ci si chiede se è il caso di aprire le porte a chi fa rap o trap. Ebbene, in questo mondo che incurante va verso l’autodistruzione a causa dei cambiamenti climatici, c’è chi persegue l’antico mestiere del cantautore. Ernesto Bassignano arriva da lontano, da quel Folk Studio in quel di Roma che ha lanciato cantautori che sono diventati celebrità nel panorama italiano. Oggi Bassignano ha ancora voglia di incazzarsi, di lanciare accuse a chi ci ha ridotto in questo stato di malessere, ma ha anche tanta voglia di farsi ascoltare. Per questo continua a scrivere canzoni, alla vecchia maniera, ovvero con riferimenti a situazioni reali, sentimenti e aspirazioni di uno che la storia la conosce, perché l’ha studiata e l’ha vissuta.
Così eccolo il suo nuovo capitolo discografico, Il mestiere di vivere (Helikonia), titolo che la dice già lunga sui contenuti e non è un caso che si inizia con Amiamoci di più, perché arrivati fin qui, sapere che c’è ancora speranza di offrire e ricevere amore ci permette di continuare a vivere.
È mestiere, è consapevolezza, è conoscenza. Ernesto «Bax» Bassignano arriva a confezionare questo album dopo aver intensificato la produzione discografica che ha ripreso a marciare con una certa regolarità da Al di là del mare (2009), a cui sono seguiti altri capitoli meritevoli come Vita che torni (2014) e Il grande Bax (2016).

Nuovo album e nuove canzoni, cosa hai voluto raccontare stavolta?
Tante cose, le canzoni mi sono cresciute in fretta tra le mani e ne ho fatto un disco, come si usava. Per esempio c’è La campana suona che è dedicata a Macerata, dove ho immaginato che dieci anni dopo il terremoto ci sia ancora gente sul corso che cammina e che si incontra. Per ricordare tutti quei luoghi colpiti e che ancora mostrano le ferite, come L’Aquila. Quando la canto avverto che il pubblico rimane attento e perfino si commuove.

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C’è Cesare Pavese nel brano “Un paese vuol dire”, quindi anche la letteratura entra nelle tue canzoni?
Pavese è una costante, un altro commosso omaggio, attraverso le parole e i pensieri dell’autore de La luna e i falò, titolo anche di un mio album del 1989. Qui non c’è solo l’amata terra piemontese, ma un Paese intero che resiste, resiste e canta ogni anno da decenni “bella “ciao”… e poi però crolla sotto i colpi spietati d’un secolarismo fatto di malastampa, malativù, di balle colossali, di verità nascoste e straziate, di inciuci infiniti che lo allontanano sempre di più dalle radici contadine, dalla forza della ricostruzione. Un Paese che non conosce e non vuole ricordare la sua fiera e bella lunga storia, per consegnarsi mani e piedi alla sottocultura d’un progresso fatto di niente.

Insomma Bax, la tua storia di tesserato al Pci viene fuori ancora oggi…
Al Folk Studio eravamo in quattro, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Giorgio Lo Cascio ed io, così Giancarlo Cesaroni ha creato per noi la sezione i giovani del folk, quelli con la chitarra sulla spalla che si alternava con i musicisti che proponevano folk, blues e jazz: noi eravamo i cantautori. Poi però io non volli continuare e mi dedicai al giornalismo con Paese Sera e poi con la Rai. Certo, quando sono tornato a fare canzoni ho continuato ad occuparmi di temi sociali e impegnati. Nell’album Il grande Bax ho inserito Gente di passaggio dedicata ai migranti, così sere fa al Teatro Golden di Roma l’ho cantata come ospite al concerto di Mimmo Cavallo. Io voce e chitarra, e ti assicuro che c’era del pathos, con la gente che resta sorpresa nel sentire che ci sia ancora qualcuno che canta canzoni di lotta. Non lo fanno più in molti, c’era Gianmaria Testa che lo faceva così bene…

Dicevi delle trasmissioni in Rai, come mai hai smesso?
Beh, non ho smesso, hanno trovato il modo di farmi smettere. Ero su Radio 1 con Ezio Luzzi, la trasmissione era «Ho perso il trend», ogni giorno al pomeriggio dal 1999 al 2011 ed avevamo mezzo milione di ascoltatori. Sapevo che ero nel mirino della politica, allora c’era Berlusconi, così hanno trovato il modo di fare fuori tutti i giornalisti che avessero raggiunto l’età di 65 anni.

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Insomma questa politica non ti abbandona, pure sui social sei attivo?
Si, cerco di comunicare il mio punto di vista, però ero stufo di ricevere ingiurie e ho cancellato più di qualche contatto. Adesso sono tornato a usare una certa satira. La mia fede politica è nota, speriamo che ci si risollevi dopo il tonfo. Ho fiducia in Zingaretti e in persone come Pisapia e Calenda. No, Renzi mi ha deluso, doveva andarsene e fondare un suo partito che magari avrebbe significato qualcosa in percentuale.

La canzone “La vita l’è quela che lè”, è un omaggio a Jannacci?
Si, ma non solo, è un omaggio a mio zio che era Fiorenzo Carpi, un omaggio a Milano che resta nel mio cuore insieme a Cuneo e al Derby che rappresenta molto per me. La Milano delle Latterie e del Cabaret, quando ci venivo mio zio mi faceva conoscere quel mondo, ricordo la Vanoni e Strehler che con mio zio ha scritto Ma mi.

Dove sarai prossimamente dal vivo?
È un peccato che non riesca a trovare spazi su Milano e al nord in genere. Però il 25 aprile sarò a Cuneo con l’Anpi e presento una storia delle canzoni di lotta, ne ricordo tante, sia italiane che di Dylan e Guthrie. Una situazione che unisce canzone con il teatro, in proposito voglio ricordare che con Gian Maria Volonté ho fatto teatro di strada per almeno un paio d’anni. Quest’anno però vorrei essere invitato al Premio Tenco e a Musicultura, vedremo.

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Nell’album c’è un brano recitato da David Riondino (“Il giullare verticale”) e uno ai tuoi colleghi (“Artisti”), che raccontano?
Ne Il giullare verticale ancor più viene messo in evidenza l’apporto musicale dei musicisti intervenuti, a cominciare da Edoardo Petretti al pianoforte e Stefano Ciuffi alle chitarre, i quali hanno fatto intervenire altri bravi artisti per contrabbasso, violoncello e batteria. Credo che tutto in tutto il disco si respira una bell’aria musicale. Per Artisti invece ho voluto dire che oggi sono tutti in difficoltà ad esprimere qualcosa di culturalmente alto.

Poi arriviamo a “Gli occhi di mio figlio”, un brano sofferto, una storia personale?
Sì purtroppo, un figlio adottato che poi ha sbandato, ma vorrei che questa canzone servisse a questa gioventù smarrita che avrebbe bisogno di un riscatto.

Una gioventù che non ascolta i cantautori però…
Lo so, ascoltano solo rap e trap, non ascoltano quello che hanno tracciato i cantautori, la nostra ribellione o quella dei punk, ascoltano qualcosa che non voglio nemmeno definire musica.

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