Ottant'anni fa nasceva il signor G: il cantautore che ha messo a nudo le ipocrisie della nostra società

Autore di grandi successi pop e inventore del teatro-canzone nel quale ha raccontato vizi e debolezze dellʼuomo senza fare sconti a nessuno. Nella sua casa natale sarà esposta una targa in sua memoria

Ottant'anni fa nasceva il signor G: il cantautore che ha messo a nudo le ipocrisie della nostra società
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25 Gennaio 2019 - 11.01


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80 anni fa nasceva Giorgio Gaber. Cantautore e attore, ha unito queste due figure in maniera unica inventando quella formula nota come teatro-canzone, a cui tanti oggi si rifanno citandolo. Con le sue canzoni e i suoi spettacoli ha lasciato un segno indelebile nella storia della cultura italiana portando una lettura della società e dell’uomo spietata e senza sconti, spesso filtrata dal velo dell’ironia.

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Il 25 gennaio del 1939, al civico 28 di via Londonio a Milano nasceva Giorgio Gaberscik, proprio a pochi passi dalla sede milanese della Rai che, solo vent’anni dopo, giovanissimo, l’avrebbe reso popolare a livello nazionale come interprete di rock’n’roll assieme a Mina e Celentano con la trasmissione “Il Musichiere”. E proprio sulla facciata di quella casa, alle 18 del giorno dell’anniversario della sua nascita, verrà scoperta una targa che ricorda l’evento. “Qui nacque nel 1939 GIORGIO GABER. Inventore del Teatro – Canzone. – si legge sulla targa – La sua opera accompagna vecchie e nuove generazioni sulla strada della libertà di pensiero e dell’onestà intellettuale.” Un evento che vedrà partecipare Ombretta Colli, la figlia Dalia e i suoi figli Lorenzo e Luca, ma al quale, idealmente è invitata tutta la città di Milano. 
Gaber è entrato nel cuore della gente e nella cultura del nostro Paese in due modi distinti. Nella prima fase della sua carriera, negli anni 60, con una serie di canzoni che hanno fatto la storia della nostra “musica leggera”. Da “La ballata del Cerutti” a “Porta Romana”, passando per “Torpedo blu”, “Non arrossire”, “Goganga”, “Come è bella città” e tante altre ancora. Brani in cui la canzone d’autore italiana si pone all’incrocio tra le influenze che arrivano dall’America e la canzone francese, all’epoca faro per gran parte del nostro cantautorato. Dal 1970 in avanti Gaber cambia decisamente direzione. La fine di quel decennio è caratterizzata da un grande fermento politico e culturale, di cui il ’68 è solo una delle espressioni. Gaber si sente stretto nelle maglie della discografia tradizionale e della televisione paludata di allora e cerca uno spazio di libertà nel teatro.

La svolta è segnata da “Il signor G”, del 1970, il primo di una lunga serie di spettacoli, scritti con Sandro Luporini, in cui le canzoni si alternano a monologhi. Non è la classica prosa teatrale, ma nemmeno un concerto: è il teatro canzone. Dove Gaber può esprimere tutta la sua poetica, la visione del mondo e in cui la libertà è il tratto fondamentale (e non a caso “La libertà” diventerà uno dei brani simbolo della sua carriera). Libertà di dire quello che pensa a costo di farsi dei nemici (e in quegli anni la sinistra lo metterà all’indice come e più della destra), libertà di andare controcorrente e mettere alla berlina il conformismo e il velleitarismo di ampi settori della società moderna, libertà di denudare il re senza sconti. Ma anche libertà di parlare di fragilità e sentimenti, contraddizioni e nevrosi del privato della vita quotidiana. “Dialogo tra un impegnato un non so”, “Far finta di essere sani”, “Anche per oggi non si vola”, “Polli d’allevamento”, “Anni affollati”, “Io se fossi Gaber” tratteggiano la nostra società e l’Italia di quegli anni come nessuno ha più fatto.
Lo strumento per far ciò può essere l’ironia, come accade ne “Lo shampoo”, “Il conformista”, “Destra-Sinistra” o “L’uomo che perdeva i pezzi”, ma l’invettiva, come in “Io se fossi Dio” o “Quando è moda è moda”, brano inserito in “Polli di allevamento” (1978) in cui fa a pezzi il Movimento per il suo essersi trasformato in conservazione borghese e apparato di potere a sua volta e prende le distanze da una certa sinistra senza giri di parole (“Di quelli che diranno che sono qualunquista non me ne frega niente:/non sono più compagno né femministaiolo militante/ mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate/ e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente/ sono diverso perché quando è merda è merda non ha importanza la specificazione”). 

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Negli ultimi anni torna alla canzone nella forma più tradizionale con due album già dal titolo significativi: “La mia generazione ha perso” e “Io non mi sento italiano”. Gaber se ne è andato nel gennaio del 2003, ma la sua opera ha continuato a mettere radici e a germogliare. Viene riproposta a teatro e arriva nelle scuole, grazie all’opera della Fondazione Gaber, in modo che anche le nuove generazioni possano scoprirlo. Ma se ne scorge l’eredità anche nei lavori dei tantissmi, cantautori come attori teatrali, che oggi si rifanno al modello del teatro-canzone, per il quale non si può prescindere dal citare chi lo ha portato a simili livelli. Quello che manca è Gaber stesso: il suo racconto si è dovuto fermare alla certificazione del crollo e del fallimento di una generazione e di un mondo, ma mai come oggi sarebbe stato fondamentale per cercare di capire, e con un punto di vista sicuramente fuori dal coro, un momento di rivolgimento profondo come quello che sta attraversando la nostra società.  

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