La notte magica dei King Crimson a Roma | Giornale dello Spettacolo
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La notte magica dei King Crimson a Roma

L'appassionato racconto del concerto dei King Crimson a Roma di Giuseppe Costigliola

La notte magica dei King Crimson a Roma
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26 Luglio 2018 - 21.11


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di Giuseppe Costigliola 

Tre batterie sistemate sul bordo del palco, come bocche di fuoco pronte a sparare sul pubblico in fervente attesa ritmi selvaggi, feroci, sincopati. Dietro, un set di fiati (sax alto e tenore, flauto, oboe), di bassi, dì tastiere e di chitarre. Finalmente appaiono: otto musicisti sfilano tra i cavi, le casse, gli strumenti, accennano un saluto col capo, si sistemano ai loro posti. L’ultimo ad entrare è un omino compunto, in un’elegante camicia bianca e panciotto nero, le movenze rapide e accorte di chi preferirebbe non stare lì, su quel palco illuminato a festa. Si sistema in un angolo, da dove controlla tutto. Lo sguardo di ghiaccio: lo vedo bene, è proprio qui davanti. Con gesto ieratico imbraccia una chitarra, indossa un grosso paio di cuffie nere, smanetta sulla tastiera che ha davanti, un piccolo monitor, le pedaliere. È lui, da quasi cinquant’anni, la mente pulsante della band. Il musicista totale. L’antipersonaggio per eccellenza. Robert Fripp.

Si accordano gli strumenti, come un’orchestra classica. Si scambiano sguardi, si conta il tempo col capo: Un, due, tre, quattro… via!

Le note di Larks’ Tongue in Aspic, Part One, si diffondono nella dolce aria dell’estate romana, subito riempita dalla malia di un sound unico. Suoneranno due ore e venti, i King Crimson, con una pausa tra due sessioni di musica purissima, senza tempo. È proprio vero, questa band è unica. Non si accontenta di propinare i propri pezzi consunti dall’ascolto e dalla riproposizione, in un nostalgico viaggio nel passato. No, nel migliore spirito jazz, ogni volta che questi musicisti eseguono un brano ne rimodellano la forma, le emozioni che ne scaturiscono. È così anche stavolta, gli otto musicisti ci danno dentro con anima e professionalità estrema, snocciolano uno dopo l’altro i brani che hanno fatto la loro storia: Cirkus, Lizard, mettendo gli ascoltatori in un angolo, senza quasi lasciargli il tempo di fiatare, incalzandolo con ritmi turbinosi, arrangiamenti imprevedibili che dal puro progressive saltano alla fusion, da arcani passaggi di classica al free jazz più destrutturato, un calderone musicale mescolato con sapienza dall’anima geniale di Fripp, che come un gran sacerdote dirige i suoi adepti, inglobato nella sua chitarra che pare un’estensione del corpo. Un attimo di pausa, quasi ad infiammare un’atmosfera già rovente, ed ecco partire le note struggenti di Epitaph, intonata con anima da Jakko Jakszyk, che nel registro vocale ricorda non poco il compianto Greg Lake, la cui voce scolpì nella leggenda questo brano. Siamo nel cuore della prima parte del concerto, che prosegue a ritmo se possibile ancor più serrato con One more Night Nightmare, Red, Fallen Angel, la meravigliosa Islands, Larks’ Tongues in Aspic Part Two.

Venti minuti di pausa, giusto il tempo di sgranchire le gambe, alzare gli occhi al cielo trapuntato di lumi che ha benedetto la performance con una serata perfetta, ed eccoli rientrare sul palco, ordinati e metodici. Il pubblico è in muta, ipnotica attesa. Ed ecco partire all’unisono la ritmica tribale e mesmerizzante dei tre batteristi: Drumsons of Unconditioned Realms. Un inizio sfavillante, quasi un nuovo concerto, e si è di nuovo risucchiati nel marasma sonoro di una tessitura musicale capace di fondere canoni e generi musicali per attingere al puro magma sonoro, in un viaggio metafisico nell’ombelico del mondo da cui sorge il suono incontaminato: Indiscipline, poi la sognante Moonchild, di nuovo i vortici timbrici di Bass and Piano Cadenzas, per poi tornare al mito: The Court of the Crimson King, intonata con commovente trasporto da un pubblico ormai in balia completa di quel mago dei suoni e di quei prestigiatori che ha scelto per officiare le sue stregonerie: le percussioni incisive quanto creative di Gavin Harrison, quelle furibonde di Pat Mastellotto e di Jeremy Stacey, che presta il suo talento anche alle tastiere, il basso cesellante di Toni Levin, i fiati psichedelici di Mel Collins, che deve sputare l’anima per stare dietro a tanto furore ritmico, il tappeto sonoro delle tastiere di Bill Rieflin, la voce suadente e la chitarra incisiva di Jakszyk.

Ma non è finita, non può finire qui: c’è ancora spazio per Radical Action, Level Five, per il canto melodico di Peace: An End. Adesso il tempo è maturo, partono le note cristalline della leggendaria Starless, dal testo criptico come poesia, dalla musica limpida e celeste dell’inciso, granulosa e graffiante dello sviluppo armonico, prima del finale celestiale, che Fripp interpreta con trasporto inusitato, il corpo sempre rigido e controllato forse per la prima volta stasera si scioglie, rapito dall’incantesimo della struggente linea melodica. Adesso i musicisti sfilano via, approfittando della malia gettata sul pubblico, che boccheggia stordito. Ma le luci non si riaccendono, la fame di musica non si è placata, si aspetta il rito del bis, sapientemente concesso. La memorabile performance si chiude con un altro classico, come nelle migliori tradizioni, un brano scritto quasi mezzo secolo fa: 21st Century Schizoid Man. Profetico, quel Merlino della vecchia Albione, come profetica è la sua musica, che non cessa di stupire, di ammaliare, di farsi ascoltare.

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