Dalla parte degli indiani: così De André cantò le stragi dei nativi

Quarant'anni fa usciva Coda di Lupo (contenuta in Rimini). Poi nell'81 fu la volta dell'Indiano e di Fiume Sand Creek. Nel '92 l'artista genovese rifiutò di celebrare Cristoforo Colombo con Dylan

Dalla parte degli indiani: così De André cantò le stragi dei nativi
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22 Aprile 2018 - 10.19


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di Riccardo Valdes

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Sono passati 40 anni da Rimini, il disco di Fabrizio De André con Massimo Bubola. Era il 2 maggio del 1978 quando l’album venne pubblicato. Ed è qui, in questa opera, che inizia ad affacciarsi la passione dell’artista genovese per i nativi americani. Grazie a una canzone come “Coda di lupo”. Il pezzo, bellissimo, è incentrato sulla figura di un giovane pellerossa al quale il nonno raccomandava di non credere mai “al dio degli inglesi”. Coda di Lupo cresce e, in un turbillon di immagini, da vecchio assisterà anche all’arringa di un generale Custer dai capelli corti, in antitesi a quello storicamente esistito e sconfitto a Little Big Horn che i nativi chiamavano “Capelli lunghi”.

 

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Ma è nel 1981 che De André manifesta con chiarezza il suo amore per gli indiani d’America. Legge Memorie di un guerriero Cheyenne, libro/intervista che raccoglie i ricordi, spesso dolorosi, del guerriero Cheyenne Gambe di Legno e compone un album senza titolo, il suo decimo. Un disco che passerà alla storia come L’indiano, per via della copertina, sulla quale è riportato un dipinto dei primi del Novecento di Frederic Remington, The Outlier. L’indiano contiene Fiume Sand Creek, che racconta il massacro di Chivington, episodio clou guerra del Colorado e delle guerre indiane negli Stati Uniti d’America.
Un accampamento di circa 600 nativi americani membri delle tribù Cheyenne meridionali e Arapaho, situato in un’ansa del fiume Big Sandy Creek (oggi nella Contea di Kiowa nella parte orientale dello Stato del Colorado), fu attaccato da 700 soldati della milizia statale comandati dal colonnello John Chivington, a dispetto dei vari trattati di pace firmati dai capi tribù locali con il governo statunitense. Visto lo scarso numero di guerrieri armati e capaci di difendersi presenti nel campo, l’attacco dei soldati si tradusse in un massacro indiscriminato di donne e bambini, con un numero di morti tra i nativi stimato tra le 125 e le 175 vittime (oltre ad altri 24 morti e 52 feriti tra gli stessi militari attaccanti). Come riferito da molti testimoni oculari, i corpi dei nativi uccisi furono scalpati e in molti casi ripetutamente mutilati da parte dei soldati.

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La poetica di De André è forte, lacerante. Il generale narrato non è Chivington, che all’epoca aveva circa 40 anni, ma un Custer di “20 anni, occhi turchini e giacca uguale, figlio di un temporale’, un altro massacratore di nativi, autore della parallela strage del Washita.

 

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De André canta: “Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek. Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte, c’erano solo cani e fumo e tende capovolte”. Ed è proprio un bambino sopravvissuto al bagno di sangue a raccontare la storia di una strage che finì anche sotto inchiesta da parte dell’Esercito statunitense e del Congresso. Ma nessuna misura punitiva fu presa nei confronti dei partecipanti al massacro.
Ma l’episodio maggiormente significativo riguardo il rispetto e l’amore per i nativi da parte di De André è datato 12 ottobre 1992 in occasione del concerto di Bob Dylan a Genova, in cui si festeggiava il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America, al quale Fabrizio era stato invitato ma non si presentò, rinunciando a cantare con uno degli artisti più importanti ma mantenendo un incredibile coerenza.
Così Fabrizio spiegò la sua scelta: «desidero ribadire, ricordare, che non si trattò di una scoperta, casomai di una riscoperta. Perché quando Cristoforo Colombo, con il solito “capello fluente, occhio sognante”, piede sicuramente fetente, sbarcò sull’isola di San Domingo, c’era una popolazione, c’erano quelli che poi sarebbero stati chiamati “domenicani”. Ed erano lì da circa 20 o 30 mila anni: avevano attraversato lo Stretto di Bering insieme a tutti quanti gli altri, che sarebbero stati poi chiamati a loro volta “indiani”. Quindi, la sera del 12 ottobre 1992, almeno per quanto mi riguarda, starò vicino agli indiani e ricorderò insieme a loro quello che loro considerano il giorno del più grave lutto nazionale».
Anche per questa mirabile coerenza De André rimane un gigante della musica d’arte. Un indiano in un mondo di canzonettari.

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