Kurt Cobain o del lutto eterno della Generazione X

Era il 5 aprile 1994 quando il leader dei Nirvana si tolse la vita. Un'intenzione annunciata, cantata con dolore e disperazione. E che pure non ascoltammo con il dovuto rispetto

Kurt Cobain o del lutto eterno della Generazione X
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5 Aprile 2018 - 17.22


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di Daniela Amenta

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Appena si seppe, appena arrivò la notizia furono prima lacrime, poi disperazione, poi veglie, infine l’incapacità di gestire la realtà. L’8 aprile del 1994 la “Generazione X” si trovò a fare i conti con un lutto che, ancora, in molti, non hanno alcuna intenzione di metabolizzare. In parte dipende dalla stessa mitologia del rock, in parte è roba da lettino freudiano. Si chiama negazione, meccanismo di autodifesa anche in caso di tragedia collettiva. I ragazzi e le ragazze degli anni Novanta all’improvviso provarono la desolazione dell’assenza, sentimento ben più compatto e aguzzo dello spleen di chi non ha un posto dove andare, un posto nella vita.

Alle 8.40 di tre giorni prima, secondo l’autopsia e le notazioni del Coroner, Kurt Cobain aveva premuto contro di sé il grilletto di un Remington-11, fucile semi automatico usato anche durante le guerre in Vietnam e Corea. Un colpo che non era, non è, la sconfitta di un solo uomo ma di milioni di fan in gramaglie, dei teenager di ieri. Perfino l’estetica del gesto è devastante da capire, figuriamoci da introiettare: quel volto bellissimo, angelico e disperante, massacrato da un proiettile. La negazione del sé, della stessa immagine dei Nirvana, la frantumazione dell’io, lo sfregio. Ecco, anche la violenza del rito autodistruttivo, l’esegesi tragica del male oscuro, non hanno aiutato gli orfani di Cobain che negli anni hanno dato vita a una mostruosa e gigantesca messa in scena pur di dirsi che lui no, il loro Kurt, l’icona del grunge, non l’avrebbe mai fatto, mai. Delitto, è stato un delitto. Cominciò ad avanzare ipotesi in puro stile complottista Richard Lee, giornalista in vena di scoop. E nel tempo le congetture più bizzarre, audaci e imprevedibili hanno “riempito” l’assenza, il vuoto, rimbalzando come biglie tra libri, film, programmi televisivi, forum di discussioni.

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Così il 20 febbraio, in occasione dei 50 anni mai compiuti da Cobain, è arrivato in Italia (con un discreto tempismo macabro) Chi ha ucciso Kurt Cobain?, documentario che ripercorre gli ultimi giorni del leader dei Nirvana, fino alla fine: il corpo riverso nel garage del villone a Seattle e accanto il pacchetto di American Spirit nere, nere le Converse, neri gli occhiali, nera la biro infilata nella terra di un vaso a tenere ferma, immobile la lettera d’addio. E poi il kit da tossico, i 120 dollari sparpagliati, le cicche, il quadretto amaro di tutta la desolazione cantata da Cobain nella sua breve parabola su questa terra. Protagonista principale del doc non è il caro estinto ma Tom Grant, investigatore privato che fu assoldato da Courtney Love per rintracciare il marito in fuga dal rehab di lusso a Los Angeles.

Anche Grant sostiene, ovvio, che qualcuno volesse morto Kurt. E gli indizi, guarda un po’, portano tutti alla bella e inquieta vedova. Che, di par suo, ha ingaggiato squadre di avvocati, raccontato la sua versione della storia attraverso testi, pubbliche confessioni e pellicole autorizzate (una è Montage Of Heck di Brett Morgen, del 2015). Festa mesta, dunque, per Cobain. Così celebrato, citato, eppure – pare – mai ascoltato sul serio. Prego, rileggersi i testi, provare a capire il senso di un suono oltre alla nostalgia per le camicie a quadri che indossammo. Il senso di morte è così presente, totalizzante, da fare male. Già da Bleach , l’album che apre ufficialmente le danze della carriera dei Nirvana. La prima canzone si intitola Blew, e fa così: Se non vi dispiace vorrei tirare il fiato/ Se non vi dispiace vorrei lasciarmi andare/ Se non vi dispiace vorrei lasciare/ Se non vi dispiace vorrei respirare.

E così è pure nel pluridecorato Nevermind che, tra l’altro contiene, Endless, nameless. (Silenzio/Sono qui/ Sono qui/ Silenzioso/ Splendente e pulito/ È ciò che sono. Sono morto/ Morte/ Con violenza). Fino alla tragedia di In Utero, opera che nella sostanza è un testamento. Chi scrive recensì all’epoca quel disco per il Mucchio Selvaggio, tra le più blasonate riviste rock. Cercò di spiegare perché i Nirvana fossero così respingenti, feroci, a tratti insostenibili. I fan non apprezzarono. Però sarà il caso di far tirare il fiato anche al fantasma di Kurt, farci pace.

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Dire, dirci che non esiste metafora nella poetica di Cobain, non c’è pelle a dividere i piani, nessuno spessore tra il sé e l’artificio artistico. Cobain era quello che cantava, che urlava, che piangeva e distruggeva, piangendo e distruggendo se stesso. Tutto così chiaro e manifesto, nessuna finzione, una lacerazione nelle carni e nel cuore, un’autenticità che toglie il fiato, la passione di un Cristo che sa che non esiste redenzione, né riscatto. Non era neppure più musica, a un certo punto, ma la deflagrazione totale, consapevole, di un uomo baciato dal genio e che del genio non seppe che farsene, se non considerarlo un’altra trappola in cui suo malgrado era caduto.

Nella lettera d’addio dedicata a Boddah, l’alter ego del Cobain bambino, è tutto detto. E nonostante la disperazione, quel ragazzo di 27 anni al cospetto con la propria fine è così lucido da scrivere: «Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai». Forse avrebbe dovuto aggiungere, come Pavese, «non fate troppi pettegolezzi». Della perdita di relazioni con l’io interiore, la disidratazione di sentimenti, la cesura con ogni ancoraggio possibile aveva detto anche Ian Curtis dei Joy Division. Sembra di leggere lo stesso terribile copione già scritto, archiviato, in Disorder, un pezzo del 1979: I’ve got the spirit, but lose the feeling, Feeling, feeling, feeling, feeling, feeling, feeling, feeling. Niente emozioni, e per favore niente pettegolezzi, che il defunto li odiava. Ma per una rockstar è impossibile sottrarsi al chiacchiericcio compulsivo, alle fandonie, alle congiure, alle fantasie. A una rockstar non è concesso riposare in pace e, meno che mai, scegliere il suicidio per uscire di scena. Il suicidio non si perdona a un comune mortale, figuriamoci a un divo. L’overdose è contemplata nel rock, l’incidente selvaggio è previsto, perfino l’omicidio ma non il più estremo dei gesti, quell’«atto di ambizione che si può commettere solo quando si è superata ogni ambizione». E poi diamine, aveva tutto Cobain: bello, ricco, famoso, talentuosissimo, con «una moglie divina che trasuda empatia» e una figlia che gli ricordava troppo «di quando ero come lei, pieno di amore e gioia».
C’è che in fondo, nel fondo di questa smania a cercare colpevoli, nelle foto pubblicate dal luogo della morte, nella morbosa pratica autoptica a caccia di indizi, si restituisce a Cobain solo la parvenza. Quasi che anche la sua fine facesse parte dello spettacolo. Solo spettacolo, solo show pure la solitudine e il dolore. E invece oggi, e domani, e nei giorni che verranno dovremmo  tenere soltanto l’amarezza vicina al cuore. Keeps the bitterness close to the heart. E lasciarlo andare, finalmente.

La traduzione dei testi dei Nirvana è opera degli autori di Nirvanaitalia.it

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