C’era una volta il Festival di Sanremo, c’era una volta uno spettacolo fatto solo di canzoni e niente più, c’erano una volta autori capaci di scrivere canzoni destinate a restare nella storia del nostro pop e cantanti capaci di emozionare con le loro interpretazioni milioni e milioni di spettatori. C’era una volta il Festival di Sanremo in bianco e nero, ma era così ricco di contenuti e di qualità che faceva sognare a colori.
E il Sanremo di 50 anni fa, quello del 1968, è stato senza dubbio uno di quelli memorabili. Per le canzoni, per i cantanti, per i retroscena. Lo vinse Sergio Endrigo, autore tra i più sensibili e profondi in circolazione in quel periodo, un poeta che aveva un modo elegante e garbato di porgere i suoi brani con alle spalle mille mestieri (dal lift d’albergo all’ufficiale di censimento) e che dalle atmosfere fumose e gaudenti del night club dove aveva cominciato era passato alla fucina creativa delle più importanti etichette discografiche, la Ricordi e la Rca, per spiccare il volo.
Lo presentò per la prima volta Pippo Baudo (saranno tredici le sue presenze complessive che lo esalteranno anche come talent scout eccezionale) insieme a Luisa Rivelli, attrice di film da Seconda visione che sarebbe poi diventata apprezzata conduttrice televisiva di uno dei primi programmi di servizio, “Io compro, tu compri”. Era organizzato da Gianni Ravera, come l’anno precedente, quello passato alla storia per la morte di Luigi Tenco, e si svolgeva nel Salone delle feste del Casinò di Sanremo in tre serate, con doppia esecuzione del brano in gara da parte di due artisti, con il secondo per lo più, straniero e di fama.
E ce ne furono di famosi provenienti dall’estero, nomi di grande richiamo come Louis Armstrong (in coppia con Lara Saint Paul per “Mi va di cantare”), Dionne Warwick (con Tony Del Monaco per il capolavoro assoluto “La voce del silenzio” firmato da Paolo Limiti e Isola), Wilson Pickett (con Fausto Leali per “Deborah”) e Paul Anka (con Johnny Dorelli per “La farfalla impazzita” di Mogol e Battisti).
In particolare Armstrong, trombettista e jazzista di richiamo internazionale, si rese protagonista di una performance particolare. In sostanza aveva scambiato il palco per una jam-session e non tenne conto della durata del brano che era invece limitata per esigenze televisive e suonò così per oltre dieci minuti. Baudo, seppur malvolentieri, fu costretto ad intervenire per interrompere l’esibizione di “Satchmo” e far riprendere la gara mentre il pubblico in sala conquistato da quell’exploit applaudiva a scena aperta.
Accanto a questo episodio curioso e divertente ce ne fu un altro spiacevole, rivelatore di come andavano certe cose a livello organizzativo. Celentano che aveva avuto degli screzi con Don Backy per motivi legati a dei diritti d’autore che il Molleggiato non gli aveva corrisposto, chiese e ottenne da Gianni Ravera non solo di presentare lui “Canzone”, che Don Backy aveva scritto e voleva per sé, ma che addirittura l’ex amico fosse escluso del tutto dalla manifestazione e quindi anche dall’esecuzione di “Casa bianca” che venne affidata poi a Ornella Vanoni e Marisa Sannia. Una brutta storia, in parte compensata poi dalle vendite che premiarono le versioni del buon Aldo Caponi.
Ma per una storia che si concludeva malamente fra due grandi amici (Don Backy era considerato il luogotenente di Adriano), ce ne fu un’altra che inizio a scriversi, quella fra Leali e il leggendario Wilson Pickett. Un rapporto artistico che affondava nella comune passione per la musica soul e la stima reciproca fra i due artisti che si trasformò in amicizia sincera tanto che quando nacque Deborah, la prima figlia del “negro bianco” come veniva chiamato Leali allora per la sua caratteristica voce, Pickett le fece da padrino per la gioia anche della mamma Milena Cantù, mitica “ragazza del Clan”.
Buoni successi di quel festival che arrivarono in Hit parade oltre ai brani firmati da Don Backy, “La tramontana” di Antoine , “Le opere di Bartolomeo” dei Rokes e “La siepe” dell’esordiente Al Bano.
Due poi fecero il giro del mondo diventando successi clamorosi, “Gli occhi miei” cantata da Dino e scritta da Mogol e Donida che nella interpretazione di Tom Jones intitolata “Help Yourself” esplose in tutte le classifiche internazionali, seguita da “Quando m’innamoro” di Anna Identici e scritta da Pace, Panzeri e Livraghi che divenne “A man without love” nella versione del rivale storico di Tom Joens, Engelbert Humperdincks che conquisto i primi posti nella chart inglese.
A vincere quel festival come detto fu “Canzone per te”, brano dai toni crepuscolari e dalla classica impronta melodica che ripagava Endrigo del suo impegno come artista sensibile e poco incline a compromessi. Una canzone ben costruita che aveva un testo non certo profondo ma che rivelava comunque le sue qualità poetiche, come sottolineato ad esempio dal verso “la solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore”, che confermava come Endrigo potesse essere inserito fra i nuovi autori che stavano rinnovando il linguaggio musicale. A presentarla con lui Roberto Carlos, brasiliano dalla voce particolare e dalle notevoli qualità interpretative, che sarebbe diventato un beniamino del pubblico italiano.
Riascoltarla oggi, a 50 anni di distanza da quella vittoria attraverso il filmato d’epoca, scarno ma essenziale, è un’opportunità per riassaporare atmosfere perdute di un certo modo di fare musica senza tanti orpelli e soprattutto è un’occasione per rendere omaggio ad un artista dimenticato troppo presto che merita invece la giusta considerazione sempre.