Zamboni: la Rivoluzione Russa è viva e suona insieme a noi

Il musicista e scrittore porta in tour uno spettacolo con musiche dei grandi Cccp per i cento anni dalla nascita dell'Unione sovietica: «Dobbiamo ritrovare l'idea di utopia per un mondo più giusto. L'Italia oggi? Un Paese triste»

Zamboni: la Rivoluzione Russa è viva e suona insieme a noi
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24 Ottobre 2017 - 20.10


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«Apprezzo l’autonomia dei singoli ma non la vorrei applicare al collettivo e tanto meno al collettivo geografico e politico. Vedo ora una grande paura della vita e chi agita spauracchi e parole d’ordine è facile venga ascoltato». La riflessione, quasi un monito, viene da Massimo Zamboni, chitarrista, compositore, multistrumentista, nonché scrittore, e uno dei fondatori di quel gruppo geniale, a livello europeo, che furono i Cccp (era l’acronimo per Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Il musicista parla in vista di uno «spettacolo-comizio» molto speciale che ricorda i «cento anni di rivoluzione russa» per serate che, se tutto fila come immaginato, coinvolgeranno sensi e idee in modo spiazzante anche per forza di cose non potranno sconvolgere come poteva essere sconvolgente ai primi anni ’80 una band tra punk, rock e iconografia da realismo socialista quale era la band con Giovanni Lindo Ferretti. 1917 – 2017. I soviet + l’elettricità. Cento anni di rivoluzione russa. Un secolo di Cccp si intitola il «comizio musicale» di Zamboni a cui partecipano l’eccellente cantante e attrice Angela Baraldi, Max Collini degli Offlaga Disco Pax, l’Artista del Popolo Fatur, l’ex Üstmamò Simone Filippi, Simone Beneventi, Cristiano Roversi, Erik Montanari. Le tappe? Il 7 novembre a Napoli, al Teatro Augusteo, il 12 novembre a Firenze al Teatro Verdi, il 13 a Bologna al Teatro Celebrazioni, il 15 a Udine al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il 20 al Teatro Colosseo di Torino, infine il 7 dicembre al Palasport di Reggio Emilia, la terra di Zamboni. Con debutto «nel giorno esatto in cui, cento anni fa, i bolscevichi formarono il governo rivoluzionario presieduto da Lenin», ricorda la nota stampa. La scaletta pesca dal repertorio dei Cccp inserendo un estratto dalla settima sinfonia del compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič (1906-1975).

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Zamboni, perché riprende l’immaginario sovietico e la rivoluzione?

«Perché una persona che ha giocato buona parte della sua vita pubblica sotto il nome di Cccp o Csi (il gruppo sorto sulla scia dei Cccp e dopo la fine dell’Unione Sovietica, ndr) deve fare i conti con questo centenario, volente o nolente e a volte suo malgrado. Credo di essere alla strozzatura di una clessidra, l’anniversario ti impone di confrontare la tua musica con quello che è stato e come si riflette oggi».

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Allora incarnaste perfettamente lo spirito scuro dell’epoca, gli anni ’80, quando ancora c’era la “Guerra fredda”, l’Occidente capitalista e l’Europa orientale socialista. Per chi allora non c’era o era appena nato, cosa significa rievocare l’ Urss e quel mondo?

«Nel nostro spettacolo non cerchiamo di riportare l’immagine storica di allora, ma di riportare all’oggi il discorso su cosa significano “utopia”, “riscatto”, “emancipazione”. Oggi hanno senso queste parole? E “potere”? Cento anni fa eravamo in grado di pensare che il mondo fosse nostro e ci si occupava di cosa accadeva, basta ricordare l’attitudine emiliana nei confronti dell’Unione Sovietica. Invece adesso abbiamo il mondo a disposizione nel piccolo schermo ma non alziamo mai occhi per pensarlo nostro. Sono temi molto attuali».

Il sogno di società più giusta vive ancora?

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«È molto difficile scoprirlo. La grande differenza rispetto a prima è come si è risicata l’idea di collettività e di esprimersi insieme agli altri. Per un ragazzo di oggi non c’è traccia del sogno di un possibile cambiamento nel senso di stiamo parlando qui. Ma occorre riportare alla nostra coscienza e alla nostra etica anche la parola “utopia”: non bisogna rassegnarsi a un mondo di coercizione e sopraffazione dove il numero degli oppressi è infinito rispetto al numero degli oppressori. E senza ingenuità, sapendo quante volte gli oppressi diventati oppressori. Ma le brutture di oggi hanno radici lontane e molte volte le abbiamo causate noi europei. Tutto questo spero si rifletta nello spettacolo».

Su MusicRaiser avete lanciato il crowfunding non solo per raccogliere fondi, ma con varie ricompense, tra cui onorificenze particolari in stile sovietico. Per quale ragione?

«Non è con il crowdfunding che affronti la produzione di uno spettacolo del genere: per quanto aiuti, sarebbe insufficiente. È uno strumento per provocare affezione, per far seguire la formazione dello spettacolo, scambiamo opinioni e foto con i nostri sostenitori affinché si partecipi non da puro spettatore ma da agente. Anche nel suo piccolo è un segnale prezioso vedere persone che aderiscono, ti dà la spinta quando ti chiedi chi te lo fa fare. E conferiamo onorificenze scherzose ai sostenitori quali Eroe, Cosmonauta, Agitatore, Propagandista…»

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Andate in tour e con uno spettacolo che ci farà pensare all’idea di Stato mentre le spinte localistiche in Europa, e in Italia, sono fortissime. Come le valuta?

«Apprezzo l’autonomia dei singoli ma non la vorrei applicare al collettivo e tanto meno al collettivo geografico e politico. A me piace lo statalismo ma vorrei uno Stato normale, non folle come quello italiano dove siamo espugnati dalla vita pubblica. E questo rende comprensibile come mai le spinte locali hanno gioco. Gli italiani sono stanchi. Ciò non toglie che siamo privilegiati rispetto alla maggioranza delle popolazioni del mondo, ma il doversela cavare ogni giorno è una grande fatica ed è un insulto quotidiano alle nostre intelligenze».

Come CCCP interpretavate anche una malinconia di fondo che corrispondeva a un sentire europeo, almeno in Occidente. Oggi?

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«Penso che l’Italia oggi non sia un Paese melanconico ma triste e intristito. E lo dico con tristezza. La nostalgia e la malinconia mi sembrano ottimi atteggiamenti per affrontare il mondo ma mi pare che la maggior parte degli italiani sia schiacciata dalla tristezza».

Ci descrive lo spettacolo?

«Non penso a un concerto ma a una messa in scena. Saremo sul palco come un dispotico comitato centrale, con strutture imponenti. Il palco assomiglia a un appartato con tribune e un podio molto alto. Ci sarà uno stacco tra noi e il pubblico per far sentire che anche con belle canzoni dietro quel podio ci può essere un oppressore. Ci sono momenti parlati e momenti gesticolati, proiezioni che daranno o toglieranno enfasi. I musicisti devono pensarsi come attori. Infatti abbiamo una divisa tra il sovietico e il futuribile un po’ alla Star Trek».

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