Si narra che, per affermare la propria gentile presenza, gli angeli affidino, talvolta, a un essere umano la loro voce meravigliosa, scegliendo casualmente una persona in un posto del mondo L’ultima volta la scelta cadde su una tranquilla città dell’Emilia, Modena, dove il canto è di casa, almeno quanto il buon cibo, l’ottimo vino e l’andare a piedi o in bicicletta. Forse gli angeli erano stati colpiti da un canto ispirato alla antica torre campanaria, assurta a simbolo della città, che i modenesi hanno ribattezzato affettuosamente La Ghirlandina. In quel coro si stagliava la voce di un ragazzo, venuto al mondo il 12 ottobre del 1935, che sarebbe diventato il più grande tenore.
Forse il calcio italiano perse un possibile Mazzola ma la musica trovò un grande protagonista: stiamo parlando di Luciano Pavarotti, che le foto giovanili ci mostrano calciatore, pare anche di discreto livello. E tuttavia, l’influenza del padre – che cantava nella corale «Gioacchino Rossini» di Modena, ma che per mestiere faceva il fornaio – lo porta a scegliere il canto, in forma anomala, cioè senza la frequentazione di un conservatorio. E pur facendo l’insegnante, per vivere. Il risultato è più che positivo: ci vuol poco a capire che quella voce lo porterà lontano, tanto lontano che sul New York Times, il critico Daniel Hicks scriverà: «Quando Pavarotti nacque, Dio gli baciò le corde vocali». A venticinque anni (era nato il 12 ottobre del 1935), Pavarotti ottiene la sua consacrazione artistica salendo sul palcoscenico del teatro dell’opera di Reggio Emilia per interpretare il ruolo di Rodolfo ne La Bohème di Puccini, diretta da Francesco Molinari Pradelli. Per ammissione dello stesso tenore, l’opera pucciniana rimarrà quella più rappresentativa del suo repertorio, tanto che Rodolfo sarebbe divenuto nel corso della sua carriera una sorta di suo alter-ego sul palco.
Ma non c’è ruolo nel quale Pavarotti non si affermi e nel volgere di pochi anni dal debutto (1960) eccolo diventare il primo tenore del mondo, osannato e richiesto in ogni parte del globo e particolarmente negli Stati Uniti.
Eccolo poi inventare i concerti dei «Tre tenori», insieme con Domingo e Carreras, con i quali la canzone napoletana e le arie d’opera più famose vengono cantate ai pubblici popolari nei parchi e negli stadi. Eccolo poi dar vita al «Pavarotti and Friends», che raduna ogni anno attorno a lui il meglio della musica pop, in una fusione che dimostra come la musica non abbia né etichette né confini. Ed eccolo rivestire ruoli internazionali in seno alle grandi organizzazioni come l’Onu. E si resta stupiti a guardare le foto che lo ritraggono accanto ai più grandi personaggi del mondo, che lo omaggiano e lo riconoscono ambasciatore delle buone cause verso coloro ai quali la vita ha negato fortuna e benessere.
Ma Pavarotti ci ha lasciato, oltre a tante memorabili interpretazione che lo fanno considerare indubbiamente come uno dei più grandi tenori del secolo scorso, anche una grande opera di educazione del gusto musicale, con i suoi Pavarotti e friends che si tenevano nella sua tenuta di Modena, quando cantava con tutti i grandi della lirica ma anche del pop, del blues e del jazz, quasi a dimostrare che non esistono i generi musicali ma soltanto due tipi di musica: quella buona e quella cattiva.
Grande grande grande Pavarotti, che si schermiva di fronte a noi che lo eleggevamo erede di Caruso, in una esclusiva intervista dopo Un ballo in maschera a Napoli. Se i giovani hanno scoperto che Imagine di Lennon o Miserere di Zucchero o Ragazza di Sarajevo di Bono Vox possono benissimo stare accanto a Nessun Dorma o La donna è mobile, lo si deve a lui.