Questo stupefacente personaggio anni settanta (in basso, ndr.) fotografato dal vivo l’altro ieri mentre ci intervistava al Telecinesound, uno dei pochi studi di registrazione di musica sopravvissuti allo tsunami, è Shawn Lee, compositore, polistrumentista, produttore, ma soprattutto uno che è rimasto, come si vede dal look, a qualche decennio fa, e continua a scavare per ricostruire coi ricordi e le testimonianze dei sopravvissuti (e non siamo più molti) quell’epoca.
E’ americano, vive a Londra e gira per l’Europa con la sua piccola troupe a incontrare gli ultimi autori di musica di commento delle immagini (sonorizzazione) ma, rigorosamente, solo quelli che hanno inciso in vinile. Dal CD in poi, per lui è il nulla.
A questo punto ci pare indispensabile chiarire, raccontare, spiegare a chi non lo conosce (e sono i più) questo piccolo angolo del grande mondo della musica.
Dunque, verso metà anni ‘60 ci si comincia ad accorgere che serve della musica che sottolinei e commenti le immagini di documentari, inchieste TV, filmati industriali e altre nuove produzioni diverse dai film lungometraggi a soggetto.
Per quelli esiste già una scuola musicale, anzi, un’industria che produce e firma (nomi grossi, perfino di consacrati autori classici: da Pizzetti, a Satie, Milhaud, Prokofiev, Hindemith, Mascagni, Malipiero, fino a Bernstein, Rota, Morricone) le colonne sonore. Ovvero, quelle musiche composte per specifiche sequenze del film: quindi con attacchi, chiusure, e soprattutto sincroni precisi, tanto è vero che di solito la registrazione avviene davanti a uno schermo sul quale è proiettata la scena da commentare.
Quello che invece ancora manca è uno scaffale ideale sul quale allineare, pronti per l’uso, LP confezionati in partenza per un uso genericamente descrittivo e divisi in categorie emotive: tutto un disco di musica drammatica, tutto un disco di musica infantile, industriale, esotica, di viaggio, folklorica e così via all’infinito perché infinite sono le categorie.
A questo punto un certo numero di noi viene convocato da un certo numero di discografici, i quali, tutti nello stesso momento, hanno intuito che qualcosa bolle in pentola.
Nasce così la musica di sonorizzazione, o library music.
Fin dall’inizio è considerata di serie b dagli editori, che da questo repertorio si aspettano un modesto ritorno di diritti di utilizzazione e quindi spendono poco per la registrazione in sala e ancora meno per le copertine degli LP, stampati in piccole o piccolissime quantità, che sono quasi sempre di grafica miserella e di colori orribili.
Oppure ornate da foto di incongrue signorine seminude, le cui poppe al vento poco hanno a che fare con gli effettivi contenuti del disco, ma probabilmente nelle intenzioni del produttore dovrebbero servire a incuriosire la potenziale clientela.
E questo clima condiziona anche gli autori (noi), pagati poco, con scarse prospettive di rientri economici, che quindi si mettono a scrivere musica, per così dire, con la mano sinistra.
Ebbene, passano una quarantina d’anni e all’improvviso tutto un mondo (di mentecatti, ci verrebbe da aggiungere) comincia a entusiasmarsi per quello che viene chiamato “Italian sound”, ovvero quella sonorità acustica ottenuta (da noi) suonando di corsa per ricavare dal turno di registrazione più minuti possibile di musica incisa. Evidentemente il nostro spirito latino riesce quasi sempre a fare il miracolo di spremere da quelle tre ore in sala roba buona e soprattutto originale.
Oggi si stampano magnifici cataloghi con le foto delle orribili copertine succitate, si ristampano, solo su vinile e riutilizzando la grafica originale, i più famosi di questi vecchi LP, e, basta frequentare le mostre mercato per vedere sui banchi i pochi originali superstiti in vendita a cifre che se non fossero stupefacenti sarebbero ridicole.
Intanto, incredibile ma vero, noi della sonorizzazione, nel nostro piccolo siamo diventati delle icone.
Così ci è toccato, in qualità di fossili viventi, (e per la cronaca quel giorno eravamo Brugnolini, Di Bari, Montanari, Vannucchi e Torossi) di essere intervistati dall’incredibile Shawn Lee, che, come spesso succede con i biografi, ne sapeva molto di più di noi stessi su date, luoghi, occasioni e colleghi. Noi ci abbiamo lavorato, certo, a questi progetti, ma quarant’anni fa e non credendoci del tutto; quindi allegramente dimenticando i dettagli di eventi che per noi erano banale routine.
Oggi tutto questo è storia, e allora contano anche le minuzie.
La giornata si è conclusa naturalmente a tarallucci e vino intorno a un bel tavolo con pizza, mortadella e pasta e fagioli (per descrivere il menu a Mr Lee gli abbiamo cantato quella scemenza di Dean Martin “That’s amore” in cui a un certo punto appare appunto la “pastafasùla”).
“Ah, very good” ha detto lui e non si è fatto pregare.