Tanti anni fa conobbi Otello Profazio e fu uno degli incontri più importanti della mia vita. Istintivamente io ero legato a quel mondo popolare e contadino che il miracolo economico e l’industrializzazione si stavano portando via. Eravamo negli anni in cui Pier Paolo Pasolini poeticamente lamentava, nei suoi straordinari scritti “corsari”, la scomparsa delle lucciole.
Io, anche per le mie origini famigliari, sentivo vivo e forte il legame di sangue con la terra e con quel mondo popolare che andava scomparendo. Fu proprio Otello Profazio a ridare un senso culturale a queste mie sensazioni. Con lui scoprii i canti di lavoro, i canti d’amore, i canti di festa, i canti di protesta di quelle che noi di cultura marxista chiamavamo le classi subalterne. Ma Otello fu tra i primi in Italia a parlare di storia patria vista dal Sud, una storia spesso dolorosa che abbiamo sempre cercato di rimuovere. Per noi i briganti erano briganti e basta asserviti ai Borboni e quindi nemici dell’Italia unita uscita dal Risorgimento e soprattutto della straordinaria impresa di Giuseppe Garibaldi. Fu Profazio a farmi sentire questi canti che sono vera espressione del sentimento popolare che passavano dagli entusiasmi per Garibaldi, per il re Vittorio Emanuele, canti che irridono al re Borbone e poi i canti della delusione, della rabbia per le promesse non mantenute e per gli ideali traditi. Fino alla esaltazione di briganti come Carmine Crocco che passano in poco tempo da grassatori sanguinari a combattenti a fianco di Garibaldi (è accertata la sua presenza nella battaglia del Volturno), a eroi della rivolta contro lo stato unitario.
“Volemo a Caribardi però senza la leva E si iddu fa la leva cambiamo la bandera…”E’ forse il canto che più degli altri sta a connotare proprio questa delusione del popolo meridionale, che si è entusiasmato e che ha anche combattuto per Garibaldi e per la causa italiana e si ritrova sulla testa una leva di sette anni e nessuna promessa di riscatto sociale mantenuta. La delusione è più grande per il popolo siciliano che è stato al fianco di Garibaldi, che ha mandato i suoi figli migliori a Palermo, a Milazzo a Messina ed anche sul Volturno a dare rinforzo all’esiguo popolo garibaldino (i mitici Mille) che già miracolosamente era riuscito a fronteggiare e a sconfiggere l’esercito borbonico a Calatafimi dove i Mille si erano scontrati con le forze borboniche soverchianti. Erano ragazzi di venti anni come lo era Goffredo Mameli, autore di quello che diventerà l’Inno d’Italia, che lasciò la sua vita sulle barricate in difesa della Repubblica Romana con l’Italia nel cuore e nella mente. O uno dei 19 del liceo di Bergamo che lasciarono la scuola un mese prima degli esami, o come quello che scrisse ai suoi genitori “Cari Genitori, domani ci sarà la battaglia. Se me la scampo andrò a visitare le rovine di Segesta”. O uno di quei ragazzi di 12 anni prima, che tennero in scacco il più grande esercito del mondo per cinque giorni a Milano. Uno di quei “quattro gatti sfaccendati”, come li ha definito quell’ “onorevole” (in certi casi una parola suona come insulto alla parola stessa) leghista che va in giro con le sue cazzate a sputtanare proprio il pensiero federalista di Cattaneo che è stato ed è una cosa seria e al quale dovrebbero ispirarsi.
Dopo la battaglia di Calatafimi i Mille che erano sbarcati a Marsala erano diventati 700, gli altri o rimasti sul campo o feriti gravemente. Garibaldi si rivolse a uno dei suoi più fedeli aiutanti, il palermitano Giuseppe La Masa, per chiedergli di reclutare rinforzi. La Masa ritornò dopo tre giorni con tremila “picciotti” armati in maniera approssimativa (qualcuno addirittura soltanto con “armi bianche”, come forconi e “cuteddi”). Sono siciliani prevalentemente quei trentamila che arrivano a Napoli con il Generale e sono prevalentemente siciliani quelli che affrontano e sconfiggono il riorganizzato esercito borbonico nella battaglia decisiva sulle rive del Volturno per l’unità d’Italia. Questa volta armati e equipaggiati in maniera corretta.
Qui, sul Volturno, finisce la più grande avventura garibaldina che aveva infiammato i giovani d’Italia, assetati di libertà ma anche di giustizia sociale. Istruzione per tutti e terra a chi la lavora erano i punti fondamentali del programma sociale di Garibaldi, un programma socialista a cui aveva irriso lo stesso Carlo Marx che le rivoluzioni le ispirò ma non le fece mai. Finisce con il mesto incontro di Teano con Vittorio Emanuele nel quale Garibaldi in cambio di un regno riceve soltanto una stretta di mano. Quando il re con il suo seguito si allontanò, Garibaldi si mise seduto sul ciclo della strada, aprì il suo fagottello e si misi a mangiare pane e formaggio. “Nemmeno a pranzo vi hanno invitato?” gli chiese uno dei suoi uomini. Nemmeno a pranzo lo avevano invitato. Il Generale che aveva infiammato i giovani italiani, li aveva condotti alla vittoria, sbaragliando un esercito regolare forte e bene organizzato, aveva fatto l’unità d’Italia, se ne ripartì per la sua Caprera con un sacco di sementi e una cassa di baccalà. Rimanendo però per sempre nell’immaginario popolare.
“Caribardi supr ‘o ponti Chi vindiva pumadoru ‘A bilanza non ci iva Caribardi s’offendiva”Questa strofetta immagina quello che probabilmente successe veramente: il Generale, divenuto agricoltore, che vende i prodotti della terra sul ponte che unisce Caprera a La Maddalena.
Quando poi Otello ebbe l’idea di raccogliere questi canti in un disco e mi propose di curarlo, per me fu una grande occasione anche per mettere a confronto le mie idee sulla storia e sul Risorgimento con l’importante materiale raccolto da Otello sul campo, direttamente da coloro che lo avevano ricevuto per tradizione orale per poi sistemarlo, renderlo di nuovo “leggibile” perché è questo il ruolo e il merito di Profazio che lo distingue dagli altri artisti del folk revival. Un ruolo che lo ha giustamente premiato tanto è vero che oggi, a distanza di 50 anni, Otello è l’unico rimasto sulla breccia.
Consigliai Otello nella selezione delle canzoni e nella costruzione di una scaletta che ripercorresse l’itinerario storico dall’entusiasmo per Garibaldi e per l’Italia, alla delusione per il Risorgimento tradito; alla giustizia promessa e mai realizzata; alla libertà assaporata e poi negata; al Sud liberato mai integrato nel corpo nazionale ma considerato colonia da sfruttare e da reprimere; ai briganti che tornano ad essere eroi. All’Eroe ritornato a fare l’agricoltore a Caprera mentre della “sua” Italia si fa scempio, soffocata come sempre dall’ignoranza, dalla miseria e dal sopruso.
E fu una sorpresa anche per me scoprire questa contro-storia d’Italia vista dal basso, dalla parte del popolo. Conoscevo la “questione meridionale” che avevo studiato sui testi di Salvemini, di Giustino Fortunato e soprattutto di Antonio Gramsci. Ne conoscevo l’aspetto poetico raccontato mirabilmente da Carlo Levi nel suo romanzo-saggio Cristo si è fermato a Eboli, ma non conoscevo questo aspetto “poetico” che Otello aveva raccolto proprio dalla tradizione popolare (nel senso di qualcosa che viene tramandata di generazione in generazione).
Fui sorpreso dalla prefazione che proprio Carlo Levi scrisse su richiesta di Otello, dove lo spirito popolare è rappresentato dalla “palumbeddha janca” che “soffrìu, soffrìu, soffrìu/ sa nênti cunchiudìu/ cu lu carogna re.” E aggiunge Carlo Levi che da allora niente è cambiato, per la “palumbeddha janca” che si è liberata de “lu carogna re”, perché ora soffre “cu’ ‘nfami e carognuni” della “bella Sicilia” di oggi. Ed ecco giustificato lo stupore del popolano: “Sciuri di granu/sciuri di granu/dicìtimi è o non è ‘nu fattu stranu?/Nascìa in Sicilia e sugnu italianu”.