Indimenticabile Amy Winehouse

Amy Winehouse, tre anni dopo. Riproponiamo per i nostri lettori il pezzo apparso su Globalist un mese dopo la morte di Amy, scritto da Glenda Cinquegrana.

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23 Luglio 2014 - 08.22


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Amy Winehouse, tre anni dopo. Riproponiamo per i nostri lettori il pezzo apparso su Globalist un mese dopo la scomparsa della pop star, scritto da Glenda Cinquegrana. Eccolo.

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È passato un mese dalla morte di Amy Winehouse. E mentre la stampa non faceva che sciorinare gli ultimi pettegolezzi, formulare ipotesi sulle circostanze della morte, fornire gli accorati necrologi degli amici e dei colleghi, i suoi album hanno fatto in tempo a schizzare in cima alle classifiche. Se negli ultimi anni la stampa di lei stigmatizzava soli i vizi, quali l’alcol e le droghe e l’inclinazione pervicace verso gli amori sbagliati, ora la celebrazione si è fatta unanime: chi ne ha raccontato il suo genio musicale, la capacità di fondere soul alle sonorità jazz e l’agilità nel muoversi fra lo ska e l’hip hop; chi parla dello stile personalissimo di una donna che, tatuata come un marinaio o una bad girl da bar dei bassifondi, vestiva poi i panni di rassicurante sensualità da pin up degli anni Cinquanta.

Questo che vi fornisco non è il punto di vista più o meno critico sulla cantante, ma quello più sentimentale di una non esperta di musica, di un’ascoltatrice a volte attenta e qualche volta fan appassionata.

Quando ho scoperto Amy Winehouse era già un personaggio da milioni dischi venduti e da lista dei premi a fine stagione. L’ho conosciuta così: un giorno accendo la radio e ascolto una voce che nera, che mi ricordava l’intensità delle grandi soliste del jazz, la vibrante emotività di una Billie Holiday o la vocalità portentosa di Sarah Vaughan. Oltre la voce, quello che mi colpisce è la storia che c’è dietro: una donna inglese bianca, ebrea con sangue nero nelle vene, proveniente Camden nel nord di Londra. Sembra la protagonista perfetta di un libro di Philip Roth, carica di un bagaglio esistenziale enorme che poteva richiedere tutta la vita smaltirlo. I testi, infatti, facevano riferimento al dolore, all’alcolismo, al fallimento, all’amore, la depressione. E’ lì che Amy si distanza per un miglio dall’elenco di stars puledre da classifica, e diventa indimenticabile: nei testi che parlano di vita vissuta, vera, di esperienze autentiche vissute sulla sua pelle.

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L’ironia beffarda ed intelligente mi colpisce più di ogni altra cosa: la ragazza che si prende gioco dello stereotipo della donna a caccia di marito facoltoso in Fuck me pumps, che, dopo aver investito sforzi in borse di lusso e tette finte, finisce per passare la sua vita in incontri occasionali. In I heard that love is blind si giustifica di fronte al suo fidanzato che ha scoperto che lei ha ha passato la notte con un altro: raccontandogli che assomigliava tanto a lui da essersi confusa, perché si dice in giro che l’amore è cieco. E poi Stronger than me, in cui rivolgendosi al suo ragazzo rammollito, gli dichiara sfacciatamente di non voler conoscere sua madre, ma di aver voglia solo di stringere il suo corpo sopra il suo.. E poi c’è la famosa Rehab in cui va al centro di riabilitazione e quando le chiedono perché è lì lei dichiara di non saperlo. Liberatoria è la violenta volgarità da gergo da bar di Me and Mr Jones contro le amiche, come divertente in Just friends l’elenco delle impossibilità ad incontrarsi con questo uomo impegnato – non di giorno mentre sei in ufficio, non di sera tardi quando sono già ubriaca…

I testi dei due album raccontano di una ragazza giovane, che nell’esperienza nei bar dei bassifondi, di vita ne ha osservata e consumata parecchio, e che sa già il fatto suo; delle sue esperienze cattive con gli uomini sbagliati, da complesso edipico spiccato, perché you know that I’m no good, lo sai che non sono buona. Di disastri sentimentali banali, ma di sentimenti profondissimi: non potrò dimenticare il testo di Some Unholy war, una dichiarazione d’amore e di fedeltà verso il suo uomo, di un’intensità che non ho mai sentito in nessuna canzone da disco di successo. Il capolavoro forse è Love is a losing game, vera e propria poesia sull’amore come gioco d’azzardo, scommessa giocata, ma sempre perduta.

E poi è impossibile dimenticare le sue performances dal vivo – non quelle che hanno fatto il giro del web, in cui ubriaca, biascicava confondendo le parole delle canzoni. Quella fanciulla magra fino all’anoressia e traballante sui tacchi troppo alti, tirava fuori dalla bocca una voce straordinaria con la massima semplicità e senza il minimo sforzo (cfr. [url”Love Is a Losing Game “]http://www.youtube.com/watch?v=IbzUGoT-0TI&feature=share[/url]), come se per lei cantare fosse naturale come bere un bicchier d’acqua. Nelle sue performaces, persa nei fumi della depressione e dell’alcol, metteva la sua anima scorticata sotto gli occhi di tutti: in quel pugno di canzoni, sempre le stesse, il dolore da cui venivano fuori veniva a galla ogni volta come fosse la prima volta.

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La stampa si domanda cosa resterà di questa che giovane artista, che ha lasciato l’esigua eredità di soli due dischi. Se per gli esperti di marketing resta un buon materiale di lavoro nello stereotipo vincente della donna retrò in stile anni Cinquanta e per i discografici le sonorità soul e jazzy, che già da qualche anno sono in giro per le radio, quello che resterà nella memoria dei fans sarà probabilmente la sua totale ed assoluta irriducibilità come persona e musicista. Quella che, generalmente, è propria dei grandi artisti.

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