di Rock Reynolds
Provate a immaginare di attraversare la strada per andare a comprare pane e latte, magari con vostro figlio per mano o il vostro cane al guinzaglio. Una cosa talmente normale da rasentare la banalità. A Sarajevo, dal 1992 al 1996, l’unica banalità che si potesse sfiorare era quella del male. Dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, un semplice gesto come uscire di casa per andare a fare la spesa o a prendere un caffè al bar poteva costarti la vita. A farne per prime le spese furono Suada e Olga, le due donne alla cui memoria è intestato il ponte di Sarajevo su cui caddero sotto i colpi dei cecchini appostati in una stanza dell’Holiday Inn.
Non c’è nulla di eroico nell’inquadrare una persona nel mirino telescopico di un fucile ad alta precisione, per poi tenere il respiro sotto controllo e, in pochi secondi, farsi artefici della vita o della morte di quell’essere umano, trasformandosi in giustizieri. Lo diceva Jovan Divjak, il generale jugoslavo che, durante l’assedio di Sarajevo, si schierò con i bosniaci a difesa della città e, nel 1994, fondò l’associazione Obrazovanje gradi BiH – OGBH (L’istruzione costruisce la Bosnia ed Erzegovina). Da militare, aveva le idee chiare su concetti come eroismo e coraggio, fin troppo abusati nella narrazione attuale della guerra tra Russia e Ucraina. Le sue parole sono contenute in uno splendido libro fotografico, Shooting in Sarajevo (Bottega Errante Edizioni), uscito nel 2020 e oggi, a trent’anni dall’inizio dell’assedio, tornato di prepotente attualità.
“Un cecchino è un codardo e io lo posso dire con certezza… essendo anche io un soldato. Colui che prende di mira una persona, con calma la segue e la spia da un rifugio sicuro – questo è un punto cruciale perché lui è protetto, mentre la sua vittima è allo scoperto – ha il potere di decidere se uccidere o no, con onnipotenza, con un diritto divino ricevuto, però, da un suo simile… una decisione che è una decisione suprema: sparare o lasciarla in vita”.
Il titolo stesso, contenente il termine inglese shooting, ha un duplice significato. Luigi Ottani, autore delle fotografie del libro e del primo dei diversi testi che lo accompagnano, per realizzare il servizio ha ricostruito la mappa delle postazioni dei cecchini e vi si è recato, scegliendo di avere la loro stessa visuale per effettuare i suoi scatti. Naturalmente, con un intento ben diverso. “Fotografare e sparare (N.d.A. “shooting”) non è proprio la stessa cosa. Si inquadra nello stesso modo, si trattiene il respiro nello stesso modo, si preme il grilletto, praticamente nello stesso modo. Ci si rilassa dopo un click, ma non mi è dato di sapere quale sia la reazione del corpo, del respiro, dell’anima dopo aver premuto il grilletto e ucciso”.
Dal primo aprile al primo maggio, la mostra “Mirare Sarajevo 1992-2022” con le foto di Luigi Ottani stesso e Mario Boccia, a cura di Roberta Biagiarelli (questi ultimi a loro volta coinvolti nel progetto del libro Shooting in Sarajevo), resterà aperta al pubblico presso la Casa del Mantegna, a Mantova.
Proprio dei colpi proditori dei cecchini aveva particolarmente paura la popolazione civile di Sarajevo, una città che, storicamente, aveva fatto dell’integrazione uno stile di vita e del crogiolo di culture una bandiera. Il premio Nobel per la letteratura, Ivo Andrić, con il suo splendido romanzo Il ponte sulla Drina, ne è tuttora testimone. Inizialmente, però, la gente impiegò un po’ di tempo per abituarsi all’idea di essere fatta oggetto di quel tiro al bersaglio, talvolta da parte di semplici avventurieri alla ricerca di sensazioni adrenaliniche, altre di cecchini professionisti che intendevano stabilire nuovi record, altre ancora di campioni di carabina sportiva, magari provenienti da paesi stranieri che con le presunte ragioni di quella guerra non c’entravano nulla. Azra Nuhefendić, giornalista e scrittrice bosniaca residente a Trieste, scrisse, “pensavo: non ho fatto nulla di male a nessuno, perché dovrei nascondermi o avere paura?”. Dopo aver rischiato di essere colpita da una pallottola, il suo atteggiamento cambiò.
A distanza da trent’anni dall’inizio di uno dei più lunghi assedi nella storia contemporanea, la pace sembra reggere, la pacificazione meno. Qualcuno sostiene che i Balcani restino una polveriera pronta a riesplodere, alimentata da sciocchi nazionalismi e biechi interessi economici che una cortina di fumi sovranisti e religiosi impedisce di smascherare per ciò che sono. Serve fare ordine e capire a che punto l’area si trovi nel suo processo di avvicinamento all’Europa. Come spesso accade, può essere un bel libro ad aiutarci.
Per esempio Capire i Balcani occidentali (una raccolta di saggi di esperti, ancora una volta pubblicato da Bottega Errante Edizioni).
All’indomani della disgregazione dell’ex-Jugoslavia, la prima repubblica a ottenere l’ammissione alla Comunità Europea fu la Slovenia (il paese meno colpito dalla guerra successiva alla fine della federazione voluta da Tito), nel 2004, seguita nel 2013 dalla Croazia. Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Albania non hanno ancora ottenuto il pass. Con il senno di poi, la disgregazione di quella nazione da molti considerata un modello di ispirazione per la galassia “non allineata” in realtà di scricchiolii ne aveva fatti sentire parecchi, al punto che lo stesso Tito in tarda età aveva espresso preoccupazioni sulla tenuta della federazione sotto le spinte nazionalistiche dei vari stati.
Per ottenere una pacificazione autentica, ciascuna delle parti in causa (Bosnia, Serbia, Croazia) deve fare un passo indietro e riconoscere le proprie responsabilità, se non i propri crimini di guerra. Solo così si potrà arrivare all’agognata riconciliazione. Qualche passo è stato fatto, ma si sono pure fatti parecchi passi indietro, come nel 2004, quando le autorità della Repubblica Srpska (la repubblica serba di Bosnia che, insieme alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza bosgnacca, compone lo stato della Bosnia ed Erzegovina uscito dagli accordi di pace di Dayton che misero fine alla guerra) espressero attraverso un documento pubblico una parziale ammissione dei crimini di guerra compiuti ai danni della popolazione civile musulmana di Srebrenica, per poi ripensarci e annullare tale dichiarazione nel 2018, in linea con la politica revisionista del nuovo governo nazionalista che punta con decisione a rinfocolare le spinte verso la “Grande Serbia”.
Il clima globale attuale sembra virare sempre più verso la costruzione di una “memoria militarizzata e mitizzata” degli stati, scoprendo il fianco di ogni società a una sorta di internazionale dell’odio e del terrore che si nutre di disvalori bellici. Ecco che, in questi tempi di guerra in Europa, la narrazione dell’eroismo delle azioni militari prende il sopravvento.
Non v’è nulla di eroico nemmeno in quello, a dispetto degli slanci pruriginosi dei media, sempre pronti a trasformare in gesta epiche la narrazione della quotidianità. È risaputo, infatti, che a prevalere non è praticamente mai chi combatte meglio, chi mostra doti d’ardimento superiori, bensì chi è più forte. Ovvero meglio equipaggiato. Insomma, Leonida e i suoi 300 oggi incontrerebbero qualche difficoltà in più. Certo, un addestramento superiore fa la differenza, ma non abbastanza. Molti anni fa, Robert McNamara, segretario di stato americano, dichiarò che, in fondo, la guerra del Vietnam gli americani l’avevano vinta, ribaltando di fatto decenni di ricostruzioni storiche. Non intendeva fare una sparata, bensì sottolineare che l’obiettivo di indebolire un governo “rosso” il suo paese l’aveva ottenuto, battendo in ritirata dopo aver lasciato sul terreno quasi 60.000 soldati americani, a fronte però di diversi milioni di vittime vietnamite.