di Rock Reynolds
Sappiamo bene che la guerra disgrega il senso di umanità che ancora alberga nel mondo, oltre a mietere vittime, a seminare dolore e a fare scempio del territorio e della natura. Quando, però, popoli uniti da un progetto politico (non socio-culturale) e distanziati da secoli di storia si trovano in lite per la riappropriazione di una presunta identità nazionale, si corre il rischio di assistere a contraccolpi difficili da pronosticare. Come quanto accaduto nella vicina ex-Jugoslavia. Perché la guerra avvelena le contrapposizioni sociali, acuendo dolorosamente le differenze tra i pochi privilegiati e le moltitudini dei sottorappresentati, dei comuni mortali e dei poveracci. Il risultato dirompente lo si può analizzare anche attraverso un romanzo, come I sognatori di Lubiana, (Bottega Errante Edizioni, traduzione di Michele Obit, pagg 207, euro 17) dello sloveno Dino Bauk, in cui l’autore più o meno velatamente affonda stilettate al fiele nel fianco degli immancabili fighetti, figli di papà che non solo godono del vantaggio di un’istruzione di stampo internazionale, nelle scuole migliori della vicina Austria, e che in un modo o nell’altro sono riusciti a scavallare la chiamata alle armi e un probabile coinvolgimento nelle zone calde del conflitto, ma che addirittura si gloriano di imprese baldanzose frutto della loro immaginazione malata.
Senza rischiare di svelare dettagli che rischierebbero di togliere al lettore il gusto di scoprire, pagina dopo pagina, lo sviluppo di una storia intrigante, basterà dire che al centro di tutto ci sono una rock band di Lubiana, alle soglie della guerra civile, e l’amore impossibile tra una giovane mormona americana in città per fare proseliti e un membro della band. Ma come in un grande romanzo che si rispetti, la realtà si mescola a una creatività immaginifica: una “biblioteca cabriolet”, ovvero dal tetto scoperchiato, in cui si nascondono pericolosi passaggi segreti; una vertenza sindacale che terrorizza un manager al punto da fargli cercare riparo dentro una valigia; un uomo che dà un passaggio a una strana autostoppista dal fascino misterioso; e altro ancora.
Dino Bauk, avvocato ed editorialista di un importante settimanale sloveno, colpisce nel segno con la sua opera prima, sfoggiando una voce personale, riconoscibile. E molto interessanti sono le sue riflessioni in risposta delle domande che gli abbiamo rivolto.
Una rock band di Lubiana è il cuore del romanzo. Cosa rende il rock uno strumento così universalmente potente per dei giovani rivoluzionari?
Il romanzo si svolge sul finire degli anni Ottanta, per la precisione dal 1989 (un momento di svolta non solo per me ma, più in generale, per la storia moderna) al presente, passando per gli anni Novanta e approdando a un futuro astratto, in realtà una sorta di non-spazio in un non-tempo. Gli anni Ottanta e i primi anni Novanta furono anni di esplosione artistica ed energia creativa nell’ex-Jugoslavia, in ogni area della creatività e dell’espressione, soprattutto nella musica rock. La Jugoslavia disponeva di una scena e di un’industria musicale di prim’ordine.
Ho ambientato la vicenda, del tutto romanzata (basata su frammenti della mia vicenda personale, dei miei ricordi, delle mie emozioni e delle mie riflessioni), nell’ambito storico della disgregazione della Jugoslavia, dell’indipendenza della Slovenia e del problema specifico delle cosiddette “persone cancellate”, vittime di una legge criminale del 26 febbraio 1992, 25.000 cittadini di altre nazioni dell’ex-Jugoslavia (serbi, croati, bosniaci e via dicendo) che al tempo vivevano e lavoravano in Slovenia e a cui la burocrazia del neonato stato sloveno, cancellandoli legalmente dal registro dei residenti permanenti, negò il diritto a una vita normale, privandoli della minima dignità umana. Nessuno al tempo ne fu del tutto consapevole e quelle persone (al tempo spesso bambine) furono costrette a subire situazioni kafkiane. Solo molto tempo dopo, la corte costituzionale slovena dichiarò quell’atto amministrativo una violazione dei diritti fondamentali. Ho cercato, dunque, di scrivere di sentimenti basici: amore, amicizia, caducità, lutto e memoria.
La musica delle rock band jugoslave del periodo (soprattutto degli Ekatarina Velika o EKV) è la colonna sonora del tempo di cui io scrivo ed è stata molto importante per me perché, in qualche modo, quello che scrivo è la documentazione di immagini e scene che vedo e che sono accompagnate dalla musica. La scrittura e le parole vengono dopo.
Non avrei mai detto che in Jugoslavia ci fossero molti fan dei Beatles. Eppure, lei e i suoi personaggi sembrate esserli.
Chi di noi è nato in Slovenia e in Jugoslavia negli anni Settanta e Ottanta ha avuto modelli culturali decisamente occidentali. I Beatles giunsero da noi senza censura, seguiti da psichedelia, punk, new wave, rap e via dicendo. E noi, grazie anche a quelle influenze, disponevamo di un’ottima scena musicale domestica, il che ci consentì di crescere liberi. Verso la fine degli anni Ottanta, la nostra libertà intima fu la base per la richiesta di democrazia e pluralismo che smantellò il regime jugoslavo. Purtroppo, la gente di quest’area finì per scegliere e ottenere nazionalismo e guerra invece che autentica democrazia.
La guerra civile che ha portato alla disgregazione della Jugoslavia è relativamente recente. Perché tutti gli scrittori dell’area vogliono raccontarla a modo loro? Lo fa anche lei, senza parlare direttamente di guerra…
Per me e per gli eroi del mio romanzo, quel periodo è importante su due piani diversi: uno sociale, più ampio; l’altro personale, intimo. Sul piano sociale, fu il periodo del crollo rapido del vecchio stato, il periodo dell’illusione popolare di essere sulla via luminosa dalla democrazia e della libertà, anche se presto sarebbe parso chiaro che stavamo tutti percorrendo la via verso nazionalismo e capitalismo (uccidendoci e massacrandoci a vicenda nel tragitto) e che democrazia e libertà ci sarebbero sempre sfuggite. Sul piano personale, per i protagonisti del romanzo tanto quanto per me, quello fu un periodo di transizione dalla giovinezza all’età adulta. E la coincidenza tra quel periodo liminale per me e per le loro vicende personali come per la storia di quelle aree balcaniche – quando il vecchio inevitabilmente termina e si perde e il nuovo non è ancora iniziato e non ha nemmeno assunto contorni riconoscibili – è ciò che mi terrà perennemente intrappolato in quel tempo, per lo meno con una parte essenziale dei miei pensieri e sentimenti.
Dove ha tratto la sua ispirazione per Mary, la splendida missionaria americana mormona?
Mi si è presentata nel tragitto sotto forma di scintilla creativa e sono stato ben felice di accoglierla in quanto osservatrice esterna della vita e della gente della Lubiana del tempo. E, ovviamente, come polo opposto rispetto a Denis, Goran e Peter. Da un lato, un’americana legata indissolubilmente alle regole della sua comunità religiosa e, dall’altro, tre ragazzini liberi di uno stato socialista a partito unico.
Lei esprime una critica neanche troppo velata dei giovani sloveni di buona famiglia che, durante la guerra, in Austria per studiare all’università, spesso si vantavano di imprese belliche che non li avevano nemmeno sfiorati. Quel tipo di spaccatura è tuttora forte nella società slovena?
I due personaggi di cui lei parla in realtà sono croati. I loro genitori li hanno mandati all’estero per salvarli dalla guerra. In Croazia, grazie alla privatizzazione ben più selvaggia delle proprietà sociali negli anni Novanta, la spaccatura tra la minoranza privilegiata e la maggioranza svantaggiata si è aperta molto prima e in modo più evidente che in Slovenia, dove il processo è stato più graduale e meno radicale. Tuttavia, anche in Slovenia le disparità sociali sono andate crescendo negli ultimi trent’anni. Le disuguaglianze sociali, riprodotte dal sistema capitalista neoliberista che abbiamo erroneamente adottato in Slovenia in quanto compagno naturale della democrazia vengono alleviate soprattutto attraverso i sottosistemi sociali tuttora forti dell’istruzione pubblica, dell’assistenza sanitaria e della previdenza sociale, ultime reliquie del nostro patrimonio sociale. Tuttavia, a lungo andare, si tratta di una battaglia persa, e quel patrimonio sociale è destinato a crollare sotto i colpi degli interessi privati e capitalistici.
Si tende a pensare che un paese un tempo socialista si orienti al socialismo persino una volta abbracciato il capitalismo. Cosa si sente di dirmi della Slovenia di oggi? E tale contraddizione è un utile strumento letterario?
Cercherò di rispondere a questa domanda attraverso la descrizione dei personaggi principali di questo mio romanzo. Peter, un burocrate disilluso e apatico, è uno di quelli che non si sono adattati alla nuova realtà, mentre Goran, il suo amico ed esatto opposto, è un imprenditore pieno di risorse che vive nello spirito del tempo. Questi due personaggi descrivono i due volti della società slovena odierna. Ma, per capire il quadro completo, bisogna affiancargli ciò che manca, ovvero l’assente Denis, il vero protagonista della storia che, in un certo senso, rappresenta la parte persa per sempre dell’identità del nostro popolo che, come una sorta di Atlantide, è sprofondata irrevocabilmente insieme al vecchio stato negli abissi della storia, non perché il vecchio stato fosse ideale e buono, ma proprio per via di quanto creato sulle sue rovine, dove quella parte della nostra identità non avrebbe mai avuto la minima possibilità di esistere. Sembriamo aver tutti perso la nostra vitalità e la nostra profondità. A sopravvivere sono state meschinità e superficialità. La prima si riflette nell’atteggiamento nei confronti di tutte le minoranze e dei rifugiati e la seconda nell’atteggiamento nei confronti della pandemia da coronavirus e nella relativa forma mentis verso la scienza e le sue raccomandazioni riguardo alla vaccinazione. E, ovviamente, non c’entrano minimamente le caratteristiche congenite della popolazione che vive in quest’area. Piuttosto, si tratta delle conseguenze logiche dei sistemi socioeconomici e della posizione geografica periferica di queste nuove nazioni in relazione al cosiddetto centro europeo, ovvero la “vecchia Europa”.