Il Caso Moro, o il “Romanzo Criminale” della nostra Repubblica

In un libro l’indagine dello scrittore italoamericano Pietro Di Donato

Il Caso Moro, o il “Romanzo Criminale” della nostra Repubblica
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

21 Maggio 2021 - 10.52


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Il Caso Moro”: dietro questa locuzione dalle lugubri risonanze giallistiche si cela uno dei più turpi misteri della democrazia italiana che, a distanza di quarantatré anni, la parte meno infetta di questo Paese non è riuscita ancora a svelare. Ben cinque procedimenti giudiziari e due Commissioni parlamentari istituite per venirne a capo sono naufragati: dopo centinaia di audizioni, migliaia di pagine fitte di testimonianze, ricerche e ricostruzioni, sono ancora troppi i nodi irrisolti. Oltre alle inchieste ufficiali, infiniti sono stati i libri, gli articoli, i convegni, le opere cinematografiche e teatrali dedicati alla vicenda, ognuno con le sue ipotesi, ognuno con le sue verità.

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Bisogna ammettere che la strategia della disinformazione creata dall’agente della Cia Steve Pieczenick e dai suoi collaboratori piduisti, riuniti nel Comitato di crisi creato dopo il sequestro dal Governo per gestire l’emergenza, che rispondeva all’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga e al quale partecipava anche Licio Gelli ­– come Bettino Craxi rivelò a Sandra Bonsanti –, ha avuto pieno e duraturo successo, impedendo che ancora dopo decenni si arrivasse a fare piena luce sul caso.

Una delle prime inchieste “private” fu condotta durante la primavera e l’estate di quell’infausto 1978 dallo scrittore americano di origini italiane Pietro Di Donato, celebre autore del romanzo Cristo tra i muratori (1939), accorato atto d’accusa contro le morti bianche nell’industria edilizia statunitense e storia esemplare del dramma dell’emigrazione. I risultati della sua indagine, che apparvero sulla rivista Penthouse nel dicembre di quell’anno, e in parte sul quotidiano Il Tempo, sulla rivista di controinformazione ABC e sul settimanale Panorama, in Italia furono bollati come una ricostruzione letteraria dei fatti, malgrado contengano non pochi elementi degni di rilievo, provati dalle inchieste succedutesi negli anni.

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Il reportage di Di Donato è stato finalmente pubblicato per intero da una piccola ma combattiva casa editrice marchigiana, Capponi Editore, in una collana, curata da Paolo Prezzavento, dal titolo emblematico, “I fili nascosti della storia”, con il titolo Cristo tra i brigatisti. Aldo Moro da morto valeva più voti che da vivo (pp. 132, € 15). Per correttezza filologica, considerando la delicatezza del tema, al testo tradotto si affianca l’originale, il cui titolo, Christ in Plastic (il riferimento è al telo cerato di plastica nel quale venne avvolto il cadavere di Aldo Moro), è evocativo di quel Christ in Concrete che diede la fama al suo autore. Il volume è corredato di un’introduzione a firma del curatore, “Il Caso Moro e l’epistemologia del Terrore”, dove si tracciano le coordinate di riferimento della vicenda che sconvolse l’Italia, di una bibliografia sul Caso Moro e sul terrorismo e di una postfazione di Maria Giuseppina Cesari che tratteggia la figura letteraria dell’autore.

Di Donato era un intellettuale scomodo che, come si nota nella postfazione, univa la sua “italianità” all’impegno inteso come partecipazione al reale. Egli appartiene dunque a quella tradizione di denuncia e di testimonianza tipica di molta letteratura italoamericana. Giunse in Italia nei primi giorni di maggio del 1978, e per il suo reportage si comportò come un giornalista vecchio stampo, svolgendo un’inchiesta approfondita, con un’accurata ricerca delle fonti, intervistando tutti i protagonisti del Caso Moro disponibili a parlare con lui. Di Donato sostiene che in un precedente soggiorno nel nostro Paese un senatore del Pci gli aveva presentato un misterioso personaggio, che chiama R1, “uomo d’affari di successo ma anche rivoluzionario”. Si era tenuto in contatto con lui, e nel maggio del 1978 per suo tramite aggancia un uomo che conosceva elementi della cellula che aveva rapito e giustiziato Moro, denominato R2. “Trascorsi due mesi a intervistare i due brigatisti, gli amici della famiglia Moro, poliziotti, giornalisti, osservatori politici, preti – chiunque fosse disposto a parlare con me”. Dal materiale raccolto “mi sono preso la licenza di ritrarre il calvario dei 55 giorni di Moro e la sua crocifissione”.

L’indagine di Di Donato fornisce un quadro degli eventi sostanzialmente diversa dalla versione ufficiale, tuttora accreditata. Le sue ricostruzioni non guadagnarono particolare credito, ma, storicizzandone le affermazioni, sono molti gli elementi provati dalle inchieste degli anni seguenti, come ad esempio il fatto che la sera precedente l’agguato il percorso che l’auto di Moro avrebbe dovuto fare fu modificato due volte: le “fonti” rivelarono a Di Donato che le BR vennero a conoscenza in tempo reale di questi cambiamenti. E ancora, sono diversi gli aspetti interessanti riguardanti la logistica dell’intero Caso: dove fu portato Moro, dove avvenne il cambio delle auto, e se fu spostato.

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Molti dei particolari evidenziati nel reportage non erano dunque mai emersi in nessun resoconto, tuttavia, forse anche per il registro scelto da Di Donato, che mescola lo stile giornalistico al narrativo, con l’inserimento di dialoghi tra Moro e i brigatisti, furono liquidati come ipotesi di fantasia, a cominciare dalla figura del Grande Inquisitore di Moro, sorta di Grande Vecchio delle BR, persona di fine cultura, cresciuta in una famiglia in vista che aveva frequentato personaggi del calibro di Benedetto Croce e Carlo Levi. Di Donato è stato il primo ad affermare che colui che interrogò Aldo Moro nella cosiddetta “Prigione del popolo” non poteva essere stato Mario Moretti, individuo astuto ma privo delle basi culturali necessarie per comprendere un raffinato intellettuale come il Presidente della DC. Zucor, questo il nome di fantasia scelto da Di Donato, è tratteggiato con una precisa serie di dettagli, e mostra più d’una affinità culturale col suo prigioniero, cosa che gli consente di discutere con lui da pari a pari, soprattutto di coglierne le sfumature dei ragionamenti.

Il libro è imperdibile anche dal punto di vista letterario: Di Donato era davvero uno scrittore notevole. Ma ciò che colpisce è il tono satirico, in alcuni passaggi sarcastico, qualità che, come nota Prezzavento, “trasforma il reportage in un tragicomico spaccato dell’ipocrisia e del cinismo allora predominanti tra gli esponenti della cosiddetta ‘partitocrazia’”. Una satira feroce che non risparmia nessuno, neanche lo stesso Moro, che per oltre un trentennio aveva ricoperto ruoli di primissimo piano nel partito e nei vari governi a guida democristiana. Gli altri potentissimi leader, Andreotti, Zaccagnini, Cossiga, gli “amici” democristiani di Moro, “affidabili come un gruppo di vampiri”, vengono raffigurati come cinici politicanti, così come Berlinguer e Craxi. Persino il papa, Paolo VI, ne esce a pezzi: nel migliore dei casi, appaiono tutti poco più che macchiette. Ma il capolavoro di Di Donato sta nell’aver colto la dimensione teatrale e melodrammatica della vicenda, “la stucchevole ipocrisia e le innumerevoli maschere indossate dagli uomini del Potere”. La ricostruzione si sofferma sulle continue visite che la signora Moro ricevette durante il sequestro, politici, alti prelati, magistrati che invitavano lei e per suo tramite il suo illustre marito ad accettare cristianamente il sacrificio, ad immolarsi per la salvezza dello Stato: qui la penna dell’autore è quanto mai caustica.

Leggere a distanza di quarantatré anni questa indagine finalmente disponibile in italiano è un’esperienza intrigante ma anche perturbante, poiché ci fa capire quanto siamo ancora lontani dall’aver chiarito tutti gli aspetti del Caso Moro, il vero “Romanzo Criminale” della nostra martoriata Repubblica.

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