di Giuseppe Cassarà
Edito per People è uscito il libro ‘Over the Rainbow – 10 discorsi dal Pride’ curato da Francesca Druetti e con le illustrazioni di Tommaso Catone, una raccolta di 10 discorsi simbolo che hanno fatto la storia di 50 anni di Pride.
Ai discorsi si aggiungono anche i contributi tematici di Luca Paladini, portavoce de “I Sentinelli”, e di Gianmarco Capogna, esperto di politiche europee di non discriminazione e portavoce di Possibile LGBTI+. Francesca Druetti e Gianmarco Capogna hanno risposto ad alcune domande.
Si è tenuto a Roma il primo Pride intersezionale: si è parlato di diritti di tutti, e questa sembra essere la direzione più giusta e umana da intraprendere per iniziare un nuovo capitolo della storia dei Pride. C’è la necessità di non ragionare più a compartimenti stagni, ma questa forma mentis è ancora viva anche all’interno della stessa comunità Lgbtqi+ secondo voi?
L’interserzionalità è il punto centrale che avevo in mente mentre pensavo alla stesura di “Over the rainbow. Dieci discorsi dal Pride”. Il libro ha iniziato a prendere forma nel momento in cui è stato chiaro che non saremmo riusciti a celebrare i Pride con i tradizionali eventi e cortei, ma arriva anche nel mezzo delle proteste del “Black Lives Matter”, sul cui legame con la comunità lgbtiq+ è stato scritto molto (per esempio dagli attivisti neri del Pride di San Diego, che hanno rilasciato una dichiarazione molto potente). Non si tratta solo di riconoscere un passato comune, quello della criminalizzazione delle identità e della brutalità della polizia (come ci insegna Stonewall) ma di affermare quello che dovrebbe essere un caposaldo delle lotte contro la discriminazione: i diritti devono essere di tutt*, oppure sono privilegi. È spiegato molto bene e con molta semplicità da Olly Alexander, nel discorso che chiude il libro, in cui dice: “io credo che non vi sia una vera uguaglianza per le persone lgbti finché non sarà vinta la battaglia contro il razzismo, il sessismo, l’abilismo, l’arretratezza, il cambiamento climatico…”. Una comunità che si batte per il contrasto all’omofobia (purtroppo a volte “dimenticando” la transfobia), ma ritiene che il razzismo e il classismo non la riguardino, sta tradendo e abbandonando alla violenza e alla discriminazione non soltanto altre persone marginalizzate e oppresse, ma anche una parte di se stessa: ce lo mostra con dolorosa evidenza il discorso di Sylvia Rivera, pronunciato tra le grida di chi avrebbe voluto impedirle di parlare, a nome di tutte le donne trans, nere, ispaniche, sex workers, senza fissa dimora, che dopo aver animato i moti di Stonewall dando vita al movimento lgbti+ ne rimasero poi escluse quando non addirittura ostracizzate. Negare oggi l’intersezionalità della lotta significa isolare ancora di più chi sta subendo in maniera più forte il peso delle disuguaglianze.
Il ruolo dei media: purtroppo, per come funziona il mercato dell’informazione online in Italia (e in realtà nel mondo), i media sono più propensi a dare al pubblico quel che vuole. Ne parlano Lady Gaga, Harvey Milk e Franco Grillini nei loro discorsi: dare unità a un discorso complesso come quello del Pride è difficile proprio perché i media, nel 2020, parlano ancora di ‘outing’ anziché ‘coming out’, di ‘Gay Pride’ e non di Pride. Che ruolo dovrebbero assumere in questa che è una battaglia di civiltà?
I media, in termini di linguaggio e della rappresentazione che propongono al grande pubblico hanno una responsabilità molto importante, che purtroppo è spesso disattesa. A farne le spese siamo tutt*, ma in particolar modo vediamo quasi quotidianamente come a venirne danneggiata è soprattutto la comunità trans: dal misgendering, all’uso del deadname, all’identificazione univoca delle donne trans come sexworker, il giornalismo è un terreno minato di transfobia o di superficialità. Ecco perché è molto importante riportare le voci delle persone al centro del dibattito, perché possano parlare per se stesse e per il modo in cui vivono la propria identità. Questo dovrebbe essere l’impegno di tutt*, dentro e fuori la comunità, proprio come in un Pride: marciare unit*, ognuno con la propria differenza e la propria voce. In quest’ottica, “Over the rainbow” nasce anche dalla volontà di mettere sulla carta alcuni discorsi che chi non è mai stato a un Pride o chi ci è stato senza fermarsi ad ascoltare gli interventi non ha mai sentito nella forma in cui sono stati pronunciati. Allo stesso modo molti conoscono le istanze della comunità lgbtiq+ solo per sentito dire, o attraverso il filtro dei media, che spesso, come dicevamo, semplificano, distorcono o letteralmente manipolano. Mentre invece il loro ruolo dovrebbe essere, come nei confronti di ogni altro tema (specialmente quando entra in gioco la discriminazione), quello di informare, di creare degli spazi in cui possano emergere problematiche e dibattiti, e di contribuire in questo modo al formarsi di un’opinione pubblica attenta e consapevole. A partire proprio da un linguaggio rispettoso e informato, che è la base necessaria per sviluppare qualsiasi ragionamento che non sia ulteriormente offensivo e dannoso. In termini di narrazione decidere di far parlare direttamente i protagonisti del Pride aiuta a comprendere come le rivendicazioni della comunità lgbtiq+ si muovono nel tempo e nello spazio restando sempre attuale, possono cambiare le parole, che si adattano ai cambiamenti sociali e culturali, può cambiare l’impeto, ma resta fermo l’obiettivo: la liberazione da ogni forma di oppressione e per il pieno riconoscimento di libertà, diritti ed uguaglianza.
Non si parla mai abbastanza dell’impatto psicologico che ha la mancanza di diritti sulle persone Lgbtqi+, anche quelle dichiarate. Il coming out è solo la prima sfida, l’inizio del percorso. Ho conosciuto persone, anche a me molto vicine, che hanno rinunciato all’idea di avere una famiglia, di avere dei bambini, di avere una relazione stabile perché è una sfida continua e troppo impegnativa. Lady Gaga nel suo discorso parlava di questo: quando parliamo d’amore, del diritto all’amore, non stiamo parlando dell’amore delle favole, ma del diritto all’intimità, al futuro, alla stabilità emotiva. Spesso penso che alla comunità Lgbtqi+ manchi una “educazione sentimentale”, nel senso di serenità in relazione a ciò che provano, che sentono e che desiderano. Siete d’accordo?
Il discorso è molto complesso, ma sicuramente costituisce una realtà con cui fare i conti. Da un punto di vista generale, tutte le ricerche, pur nella difficoltà di raccogliere dati precisi, concordano che chi si identifica come appartenente alla comunità lgbtiq+ è soggetto a depressione e a rischio suicidio in una percentuale maggiore rispetto a chi non ne fa parte, purtroppo a partire dall’adolescenza. Ed è altrettanto indubbio che questa disparità sia legata alla discriminazione, al bullismo, alla percezione di sé attraverso la lente della società che giudica e, troppo spesso, discrimina. Per non parlare dell’impatto devastante delineato quando ci si trova di fronte a situazioni “limite” come può essere quella di una persona soggetta a terapie di conversione, pratiche inumane che segnano un impatto psicologico devastante come segnalato da diverse ricerche, come quella del The Trevor Project, o come segnalato anche in ambito delle Nazioni Unite. Recentemente, sono anche state fatte delle stime sull’impatto positivo che l’introduzione del matrimonio egualitario in alcuni stati ha avuto sul tasso di suicidi di persone omosessuali, e si potrebbero fare per ogni diritto conquistato. Andando più nel dettaglio, da un punto di vista leggermente diverso, anche all’interno della comunità si discute molto del fatto che l’inseguimento di un modello eteronormativo e il binarismo rigoroso abbiano un peso sulla salute mentale delle persone lgbtiq+. Cosa che ovviamente non è vera allo stesso modo per tutt*. Per quanto ci riguarda, la risposta è tornare alla radice, che è la libertà di scelta e di autodeterminazione: non possiamo pensare che un modello univoco (di relazione, di famiglia, di intimità) sia quello giusto per tutt*, né che sia desiderabile o raggiungibile. Ma nel momento in cui l’orizzonte è sgombro da qualsiasi discriminazione e pregiudizio, allora il problema non si pone, ogni identità, ogni affettività e orientamento è valido e non costituisce più motivo di stress o malessere (indotto o meno che sia). Quindi sì, abbiamo bisogno di una “educazione sentimentale” e all’empatia, sia verso l’altr*, sia verso noi stess*. Da sempre ci siamo battuti e continueremo a farlo affinché nelle scuole di ogni ordine e grado vengano introdotti programmi scolastici appositi come avviene in tanti altri Paesi europei, tra cui, per esempio, la Gran Bretagna e la Spagna che hanno investito tantissimo in un grande piano culturale e formativo su questi temi rappresentando degli esempi virtuosi a cui ispirarsi.
Il maschilismo, la transfobia, il razzismo: sono atteggiamenti che tristemente si ritrovano anche nella comunità Lgbtqi+. Comunità di cui molti omosessuali (e parlo di omosessuali maschi e bianchi) non vogliono nemmeno fare parte, perché – mia opinione – sono convinti che non si tratti della loro battaglia. È un tema su cui mi sono interrogato spesso: esiste certo un diritto alla riservatezza, ma si sta trasformando in indifferenza. Gramsci diceva che gli indifferenti bisogna odiarli, e sono molto d’accordo. Sebbene le battaglie del Pride siano state iniziate da donne trans nere, alla fine ci si è concentrati sui diritti di uomini ovviamente gay, ma cisgender e bianchi. Quel capitolo dovrebbe essere concluso, se ne apre un altro, quello che ha escluso il resto della comunità. Il Pride dovrebbe tornare a essere politico: come coinvolgere di nuovo la comunità?
La necessità di ripoliticizzare i Pride è emersa moltissimo in questi ultimi anni, parallelamente al discorso sull’intersezionalità con cui si incrocia molto strettamente. Ed è vero che c’è una parte di persone omosessuali (di solito uomini cisgender bianchi occidentali, come sottolineavi tu) che mostra persino insofferenza per le altre identità e orientamenti rappresentati nella sigla lgbtiq+ e per le discriminazioni specifiche che subiscono. Purtroppo torniamo alla necessità di una maggiore empatia: mentre è importante che le persone usino la propria voce per parlare della propria battaglia, non possiamo pensare che le battaglie di tutt* non siano anche le nostre, solo perché ci sembra di aver raggiunto un livello accettabile di conquiste per la nostra causa personale. Il discorso di Porpora Marcasciano sulla presa di parola trans, riportato in “Over the Rainbow”, affronta proprio il bisogno di ritrovare un terreno comune di lotta, per sconfiggere l’indifferenza e “avanzare con le proprie differenze in un percorso di orgoglio comune”. Se ci pensiamo, succede anche fisicamente: quando ti trovi a marciare accanto a qualcun altr*, senti il suo orgoglio, la sua lotta, i suoi slogan, la sua rabbia, ti contamini con la sua battaglia. A questo servono le manifestazioni intersezionali, a mischiarsi, a camminare anche un pezzo della strada degli altr*, a farsi carico anche di una parte della loro battaglia. Questo è un altro aspetto fondamentali di 51 anni di storia del movimento lgbtqi+: le nostre marce sono momenti in cui la storia del singolo si unisce e contribuisce ad una storia collettiva capace di innescare una vera e propria rivoluzione. Una rivoluzione che passa anche dal numero crescente di persone che hanno deciso di unirsi alla comunità e al movimento. E anche se non tutt*, sono già moltissim* a farlo, anche tra gli uomini bianchi cisgender, sia omosessuali che eterosessuali. Non a caso i due contributi che accompagnano e arricchiscono la selezione dei dieci discorsi sono di Gianmarco Capogna, portavoce nazionale di Possibile LGBTI+, e di Luca Paladini de I Sentinelli. Due interventi che spaziano tra storia e ricordi mescolandosi con riflessioni più ampie sul senso del Pride, sulla sua essenza che, da quella notte allo Stonewall, vive in ognun* di noi.