“Festival celtico a Montelago, nulla in comune con la Lega”

Parla Michele Serafini, direttore artistico della manifestazione sull’Appennino tra concerti, laboratori letterari, sport

“Festival celtico a Montelago, nulla in comune con la Lega”
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10 Luglio 2019 - 12.51


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Ste. Mi.

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Suoni e rievocazioni nel mito dei popoli celtici, senza affinità con rituali passati della Lega, si celebrano nell’Appennino umbro-marchigiano, a Taverne di Serravalle di Chienti (Mc): si tiene dal primo al 3 agosto il “Montelago Celtic Festival – XVII edizione”. Concerti, 21 band, il festival raccoglie campeggiatori e più attività, dal rugby ai giochi a laboratori. L’appuntamento è organizzato da La Catasta con più enti pubblici. Collaborano la Federazione Italiana Rugby, Legambiente e Scuola Holden per il Montelago Storytelling. Risponde alle domande Michele Serafini, direttore artistico della manifestazione che vuole essere anche una risposta alla crisi provocata dal terremoto del 2016 e alla ricostruzione che ancora è lontana dall’essere davvero ripresa.
Info e biglietti: www.montelagocelticfestival.it

Il comunicato indica cinque headliner del festival: come Hevia e Mago de Oz dalla Spagna, Steve n’ Seagulls dalla Finlandia, Talisk dalla Scozia, gli italiani Folkstone. Al di là della qualità con quali criteri li avete scelti? C’è un filo comune che lega le loro musiche?
Ovviamente il programma musicale è il nostro pensiero principale sempre, già ora, malgrado il trambusto pre-festival, stiamo ragionando sugli headliner del 2020, quando il festival diventerà maggiorenne. Ciò che ci interessa è essere un laboratorio che proponga un ventaglio di possibilità legato al folk e alla celtic music. Mago de Oz presenteranno il loro nuovo album nell’unica data italiana dopo aver riempito gli stadi sudamericani, Hevia è un nostro amico ormai da anni, gli Steve ‘n’ Seagulls propongono arrangiamenti decisamente interessanti, mentre Folkstone e Talisk sono tra i principali esponenti europei del new trad. Nella loro eterogeneità, ciò che accomuna gli artisti che vengono da noi è la capacità di far ballare, di farti muovere. Seppur intervallati da momenti più riflessivi, i nostri concerti non sono fatti per sedie, panche o gradinate. La grande capacità della musica folk contemporanea è proprio quella di coniugare grande tecnicismo ad un’emotività che smuove, nel segno della sua funzionalità originaria. Montelago è e rimane una festa popolare.
Tutte le musiche oggi si mescolano con altre musiche e altri generi: cosa distingue il folk oggi? Come lo definireste, se lo si può definire?
Folk è un termine blando, a volte un po’ pigro. Si fa riferimento al folk in stretta relazione con una qualche ‘tradizione’ da preservare, riscoprire, reinventare. Anche qui c’è stata un’evoluzione dovuta alla tecnologia e alla sperimentazione che ha scaturito un genere estremamente variegato, con contaminazioni che vanno dalla World music, all’hip hop e al metal, che hanno aperto la strada verso confini inesplorati e quindi da venire. Non è un caso che a Montelago si svolge l’European Celtic Contest (alla V edizione), un concorso per le nuove proposte del panorama folk europeo che, oltre a favorire gli “emergenti” di qualità, permette agli organizzatori di captare le nuove tendenze e creare un programma coerente eppur variegato nella proposta sonora. Mentre in alcuni generi vige la legge del revival, con band che ripropongono continuamente i propri classici, perché sembra difficile abituare gli ascoltatori ai cambiamenti, nel folk – forse per essere stato considerato sempre un genere minore, almeno in Europa, ed essere quindi meno sotto i riflettori – ci sono state più energie e libertà di adattarsi alle pretese contemporanee, mantenendo però il senso della tradizione musicale da cui attinge. Ciò ha avvicinato i più giovani. Infatti un altro dato importante è che MCF è frequentato da utenti per l’80% al di sotto dei 40 anni.
Ogni genere è liquido, senza perimetri, la globalizzazione ha aperto il carattere popolare del folk a un respiro internazionale. Sempre più sono le collaborazioni tra artisti di nazionalità diverse. Negli ultimi dieci anni, siamo passati da un approccio quasi ‘expo’ alla musica etnica (dove trovavi costumi e suoni di tradizioni inventate, monche o comunque decisamente esagerate) ad un genuino approccio produttivo. Nel folk contemporaneo, si è passati dal manierismo alla produzione di nuovi stilemi.

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Cosa significa fare un festival di musica e altro nell’Appennino umbro-marchigiano, colpito dal terremoto del 2016?
Il festival è alla 17esima edizione, un evento come il terremoto cambia sicuramente l’approccio e alcune nostre prese di coscienza, come per esempio quella di voler restare nell’area del cratere, facendo i salti mortali. Mentre tante attività sono state costrette ad allontanarsi – il che ha complicato per noi anche diversi aspetti della logistica – abbiamo deciso di resistere attivando una serie di procedure che favoriscano la partecipazione dei produttori locali e di tutta la popolazione che desidera dare il proprio contributo. Ogni anno vediamo durante i sopralluoghi che svolgiamo in inverno, l’affetto che i locali e un po’ tutto l’entroterra marchigiano ci riconosce. In questo senso Mcf è un motore del turismo migliore, quello rispettoso del territorio, tanto che in questa edizione abbiamo attivato dei cammini per raggiungere a piedi il festival e che stanno ottenendo un buon riscontro. Il festival si svolge in un’area di 54 ettari destinata durante l’anno all’addestramento cani, partner è Legambiente, si tratta di una città nomade eco-sostenibile che ha le proprie radici ben piantate nel territorio, che rispetta ma cerca anche di sviluppare durante l’anno, con varie attività parallele.
Per il resto, credo sia importante mantenere una dovuta umiltà. Un festival, qualsiasi festival, non può e non deve essere l’unico motore di un territorio. Non spetta a noi mantenere alta l’attenzione sul post-sisma. Per quello ci dovrebbero essere i cittadini, i ricercatori, gli amministratori, i bravi giornalisti. Semmai il nostro compito è proprio quello di creare un momento di libertà in cui staccare dalle difficoltà quotidiane.

L’immaginario celtico è stato ampiamente adottato dai leghisti quando la Lega Nord puntava tutto sul Settentrione. Vi sentite affini o diversi da quella cultura?
L’appropriazione simbolica è sempre stata una strategia di potere. Nel caso della Lega, si è passati da un celtismo anti-clericale di facciata che andava di pari passo con ‘Roma ladrona’ ad un partito dalle forti connotazioni cattoliche. Dovrebbero esser loro a rispondere di questo mutamento. Per quanto ci riguarda, dell’immaginario celtico abbiamo sempre preso, in modo forse un po’ anarchico, la condizione di perifericità storica. I popoli celtici si sono sviluppati per gran parte ai margini di quelle che ci sono state tramandate come le grandi civiltà europee.
Con la Scuola Holden organizzate un corso di letteratura fantasy affidato a Loredana Lipperini, bravissima giornalista di Rai Radio 3 e conduttrice di Fahrenheit. Perché il fantasy? Non è un genere un po’ di moda?
Sì, il fantasy è tornato di moda. Da vecchi appassionati del genere questo non ci fa storcere il naso, anzi. Al di là delle logiche commerciali, dovremmo chiederci perché abbiamo sempre più bisogno di perderci in saghe e racconti fantastici. Da cosa stiamo scappando? Cos’è che non ci piace della realtà? L’antropologo David Graeber ha recentemente trovato nel fantasy una preziosa fonte d’ispirazione per una critica radicale della burocratizzazione totale del quotidiano. Nella vita di tutti i giorni, ci dice, siamo sempre più costretti a perderci nei meandri della funzionalità e della competizione. Le nostre giornate sono sempre più sature di formulari, protocolli, rituali sociali. È venuta meno l’avventura, la scoperta, l’informalità – tutti elementi che si trovano ripetutamente nei grandi racconti che leggiamo e nelle serie che ci appassionano. Non decidiamo nemmeno più dove mangiare una piadina senza controllare le recensioni su Google Maps e TripAdvisor. In questo senso, imparare a scrivere il fantasy è un esercizio di scoperta mentale. Per qualche ora, possiamo giocare ad immaginare altre realtà, esattamente ciò che una giornalista come Loredana da anni ottiene nei suoi scritti.
Quanti partecipanti vi aspettate?
Ormai galleggiamo tra le 15mila e le 20mila persone, un piccolo miracolo per un festival situato a più di mezz’ora dalla stazione ferroviaria più vicina e che non gode di contributi pubblici. Di una cosa siamo certi, sarà un anno speciale, abbiamo migliorato i servizi e abbiamo un programma di tutto rispetto.
Economicamente quale contributo date al territorio?
Beh, migliaia di ragazzi e ragazze che campeggiano per tre giorni in una zona non esattamente troppo frequentata, che hanno bisogno di fare la spesa, cenare o acquistare la carbonella per la grigliata nell’area camping, già è un buon punto di partenza per il territorio. Detto questo, ciò che ci sembra interessante sono le relazioni lavorative che scaturiscono da Mcf, perché comunque è richiesta collaborazione e solidarietà fra ogni arto di questo corpo sociale che non si limita a vivere per tre giorni ad agosto. Durante tutto l’anno si avvia un cammino di sviluppo a cui partecipano commercianti, amministratori locali, pro-loco, l’amministrazione, quelli dell’ufficio stampa o della logistica, ognuno con i propri talenti a scambiarsi opinioni e che, come spesso è accaduto, poi intraprendono percorsi paralleli al festival. Sarà banale ma fare impresa oggi è soprattutto fare rete. E su questo abbiamo le idee chiare su come muoverci anche in futuro affinché il festival sia il baricentro per attivare altre realtà, magari non legate alla musica.

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