Giorgio Verdelli rilegge Ezio Bosso: " Bosso non suonava, trasmetteva emozioni"

è da poco arrivato in sala “Ezio Bosso. Le cose che restano”, il nuovo film del regista Giorgio Verdelli dedicato alla vita di Ezio Bosso, un modo per raccontare l' uomo oltre che l' artista

Giorgio Verdelli rilegge Ezio Bosso: " Bosso non suonava, trasmetteva emozioni"
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7 Ottobre 2021 - 16.24


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di Alessia de Antoniis

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Un Ezio Bosso ironico apre “Ezio Bosso. Le cose che restano”, che il regista Giorgio Verdelli ha presentato alla 78. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, prodotto da Sudovest Produzioni, Indigo Film e Rai Cinema. 

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Ho avuto la fortuna di sentir suonare Ezio Bosso due volte. L’ultima, la notte prima era stato molto male. Ci disse di aver perso l’uso di altre due dita. Lo disse scusandosi. Manifestando il suo disagio. Un lungo attimo di silenzio calò sulla Cavea gremita dell’Auditorium Parco della musica. Se un suono si fosse sentito in quel momento, sarebbe stato quello delle lacrime che tutti stavamo ingoiando. Quando ascoltavi Bosso non avevi sul palco un musicista, un compositore. Bosso non suonava: trasmetteva emozioni.

E questo Bosso è quello che si ritrova nel lavoro di Giorgio Verdelli, un musicista che “mi colpì perché sapeva tutte le partiture a memoria” (Enzo De Caro), “che ci raccontò la sua malattia con lucidità e, soprattutto, cosa sarebbe accaduto da lì in avanti” (Paolo Fresu). Che negli studi di Abbey Road, dirigendo la London Simphony Orchestra “sembrava volare” (Gabriele Salvatores). Un uomo per cui “la musica non conosce confini. Noi siamo uno strumento. Andiamo oltre portando la nostra identità” (Ezio Bosso al Parlamento Europeo). Un musicista classico con un’anima jazz per cui “impegno, studio e passione è quello che ti fa rialzare anche quando cadi”.

 

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La passione, l’emozione, la potenza, l’umanità, la vulnerabilità, la semplicità di un uomo che ha vissuto la sua vita “following a bird” sono “le cose che restano” di Ezio Bosso nel film di Giorgio Verdelli.

The things that remain, il titolo del suo inedito. Di Ezio Bosso resta la sua musica. Cosa invece non rimarrà?

Penso che in questi tempi così divisivi e corrosi da odi sociali e personali, la sua lezione di umanità rischi di essere dispersa… ma vorrei essere più ottimista.

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Nel film Salvatores dice: era un personaggio non facile ma con una grande voglia di vivere. Lo abbiamo amato anche per questo, ma qual era il Bosso non facile?

Beh, si dice che tutte le persone di carattere abbiano un carattere difficile, e Bosso non faceva eccezione: aveva le sue idee e non si spostava di un millimetro. Poi, diciamo pure che la sua condizione fisica lo rendeva vulnerabile, ma nella musica trovava una sorta di rivalsa. Come racconta nel film Angela Baraldi: “Ezio aveva un’umanità molto grande, che si è appuntita con la malattia, come una freccia che voleva andare all’obiettivo senza essere distolto dalle chiacchiere”.

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La vita sono dodici stanze. Nell’ultima si cambia e siamo pronti a ricominciare” (Ezio Bosso a Sanremo). La malattia è stata la stanza che ha capovolto la sua vita e ha fatto iniziare quella che noi abbiamo conosciuto e amato…

Certamente, non ho dubbi e su questo cito la testimonianza di Paola Severini: “la malattia lo ha mutato, ma Ezio ha portato avanti questa battaglia perché poteva rappresentare noi”.

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Ma anche le parole di Angela Baraldi, che diceva che era diventato appuntito come una freccia, sono eloquenti. Gianmarco Mazzi, il suo manager, nel film dice: “Ezio era aggrappato alla vita e con quella forza arrivava al pubblico”.

 

Quando suono divento un altro: quel compositore con il quale vivo”. Conosciamo il compositore: lei ha trovato l’altro?

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Sì, era un mio preciso intento quello di voler raccontare l’uomo insieme all’artista ma in modo coerente. “L’altro” è il Bosso che vediamo nel film.

 

È stato facile reperire tutto il materiale di cui necessitava?

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Sì e no, perché la mia idea era di cercare qualcosa che lo rappresentasse al meglio e quindi abbiamo cercato interviste inedite in Italia e persino registrazioni di interviste audio per giornali e per radio: è stato come cercare le tessere di un mosaico.

Tra le cose che abbiamo trovato di Ezio Bosso, un brano inedito che era stato eseguito poche volte e che non era ancora stato registrato: The things that remain.

Lavorare nel settore “classico”, poi, è molto più complesso per le tante autorizzazioni necessarie ai fini delle liberatorie e, nella fattispecie, mi sono trovato a giocare in un campo diverso dal mio. Ma l’attenzione e l’impegno di tutta la squadra hanno fatto la differenza.

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Ripeteva spesso “quando suono indico la luna e voi guardate la carrozzina”. Ha portato la gente comune in teatro a sentire la musica classica; l’ha tenuta incollata al televisore in prima serata. Cosa aveva di diverso e quanto ha inciso, nel pubblico, vederlo lottare contro la malattia?

Credo che il pubblico abbia visto in lui un “combattente” nel senso più bello della parola.

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Nella primavera del 2017, viene nominato direttore ospite del teatro Comunale di Bologna. È di allora la “lettera dei 51” professori d’orchestra che esprimono il loro dissenso alla nomina. Richiamando Abbado, Bosso diceva “la musica è per tutti”. I templi della musica classica restano però per pochi?

Su questo vorrei ci fosse un dibattito serio e credo di averlo minimamente stimolato: in Italia ci sono una serie di lobby nella musica come nel cinema e nella letteratura che riescono a decretare il successo o l’insuccesso. Ci sono quelli “bravi per decreto” ed i parvenu. Bosso era un grande eretico in una consorteria che vestiva il frac ma era pronta a scannarsi per qualche applauso in più.

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Sold out all’Arena di Verona, come Pavarotti a Caracalla o al MET. Bosso si è scontrato con la stessa mentalità che condannò Pavarotti?

Infatti! ed è un corollario della risposta di prima! Ezio ha cercato di cambiare le carte in tavola ed a modo suo credo ci sia riuscito!

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