L'ideatore di Monnezza: “Un horror con i politici italiani? Non c’è bisogno, ci riescono da soli”

Dardano Sacchetti ha al suo attivo qualcosa come 244 tra sceneggiature e testi per il cinema, il teatro, la tv ed altro. Alla quantità ha sempre affiancato la qualità

L'ideatore di Monnezza: “Un horror con i politici italiani? Non c’è bisogno, ci riescono da soli”
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

25 Agosto 2021 - 17.30


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Dardano Sacchetti è uno di quegli artisti per cui la scrittura è non solo lavoro, ma una passione divorante.
Ha al suo attivo qualcosa come 244 tra sceneggiature e testi per il cinema, il teatro, la tv ed altro.
Alla quantità ha sempre affiancato la qualità: una delle sue più celebri creazioni, il personaggio di Monnezza interpretato da Tomas Milian, è rimasta nell’immaginario collettivo, un successo che in pochi possono vantare.
La nutrita schiera di registi che hanno trasposto su pellicola le sue storie testimonia l’appeal dei suoi lavori, premiati anche dall’apprezzamento del pubblico: tra gli altri, Mario e Lamberto Bava, Dario Argento, Umberto Lenzi, Antponio Margheriti, Lucio Fulci, Stelvio Massi, Damiano Damiani, Sergio Martino, Enzo G. Castellari, Romolo Guerrieri, Ruggero Deodato.
Le storie di Dardano sono aspre e a tinte forti, da esse traspare un notevole talento letterario – del resto nasce come scrittore –, una visionarietà e un mestiere considerevoli.
Per più d’un verso rispettano la sua personalità, ruggente e appassionata, quella d’un uomo che va sempre dritto al punto, capace di grandi slanci ed entusiasmi come di improvvisi scarti, di suscitare intensi amori ma anche crude inimicizie.
Insomma, un uomo appunto a tinte forti, provvisto d’un cospicuo bagaglio d’ironia e indisposto al compromesso in un mondo che del compromesso ha sempre fatto la sua colonna portante. Dardano è fatto così: prendere o lasciare.
E noi volentieri prendiamo, anche perché la sincerità del suo dire è una manna dal cielo per chi voglia davvero capire qualcosa dell’universo cinema e, perché no, dei rapporti umani.
Gustiamoci dunque questa intervista, scherzosamente concessa con la promessa di una bella bottiglia di vodka Absolut. Da scolare insieme amicizia, s’intende.

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Come sei entrato nel mondo del cinema?

Per caso, senza volerlo. Un mio amico di Torino voleva conoscere Dario Argento e non sapeva cosa fare.
Io rubai l’agendina telefonica ad un tizio che sedeva accanto a noi in piazza Navona e si vantava di conoscere tutti, presi il numero e chiamai Dario che ci invitò a casa sua lo stesso giorno.
Allora Dario era molto diverso dall’immagine che è poi stata costruita da Lucherini. Era un ragazzo del ‘68: musica, irrequietezza e trasgressività più desiderata che attuata.

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Come hai imparato a scrivere sceneggiature? Hai avuto dei maestri?

Sul campo, come si usa dire. Nessun maestro, ho scritto la mia prima sceneggiatura senza averne mai scritta una prima. Era “Montesa” (un film bellissimo), scritto insieme a Dario e Luigi, il mio amico di Torino. Fu un momento vulcanico, eruzioni continue di idee ed entusiasmi. Mi sembrò tutto molto facile, i cazzi vennero dopo.

Quali sono gli elementi che determinavano il successo delle tue sceneggiature?

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I culi (di cui si ha sempre bisogno), l’intreccio maramaldo e spudorato di generi e visioni assorbito da W. S. Burroughs, il fatto che nasco scrittore e ho cominciato a tredici anni “riscrivendo” romanzetti polizieschi e film che mi avevano deluso in alcune parti. Si impara meglio e di più dai brutti film che da quelli belli, contrariamente a quello che dicono i fighetti.

Quando scrivevi una storia avevi in mente degli attori in particolare?

Erano attori ideali, io scrivevo le storie per me, poi quando rimanevo senza soldi per l’affitto e la spesa facevo il giro delle produzioni.
Di solito uscivo la mattina alle dieci e a mezzogiorno avevo già venduto la storia e in tasca l’anticipo, spesso in contanti.

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È cambiato nel tempo il tuo modo di scrivere sceneggiature?

Si è no, ho più esperienza e sono diventato più esigente nei miei confronti. Cerco sempre la perfezione, cosa che fa incazzare i registi.

I tuoi copioni erano spesso a tinte forti. Hai mai avuto problemi con la censura?

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Mai. Erano storie di fantasia senza alcun compiacimento.

Ti capitava spesso di lavorare sullo stesso copione con altri sceneggiatori? Che tipo di esperienza era?

Traumatica. Ho sempre lavorato da solo, quando capitava di essere più di uno finiva sempre in rissa. Ero molto aggressivo e non sopportavo incapaci e teste di cazzo.

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Eri solito stingere amicizie con i tanti attori che incarnavano le tue storie?

Sono diventato amico solo di Tomas Milian, Monica Guerritore e Gabriele Lavia, tre persone con una vera marcia in più.

In tanti si sono accreditati la paternità di una tua creatura, il personaggio di Monnezza interpretato da Tomas Milian. Come nacque?

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Sono di sinistra. Praticamente da quando sono nato. Luglio Sessanta, segretario della “Bertrand Russell Peace foundation” e in tale veste ho organizzato nel 1965 i primi due sit in contro la guerra del Vietnam, quindi tutto il Sessantotto.
Mi ero rotto le palle di venir accomunato da quelle “splendide teste di grande sapienza” che sono i critici ai poliziotteschi fascisti che altri ideavano e giravano.
Mi misi in testa quindi di “uccidere l’uomo ragno”, ovvero il poliziottesco. Presi spunto da Enzo Barboni e il suo Trinità.
M’inventai un antieroe, rovesciai una trama sempliciotta e puntai sull’ironia. Per il soprannome mi tornò in mente una striscia che compariva sul “Monello” o “L’intrepido” (giornalini in voga al tempo di Capitan Miki, Grande Blek, Akim, Tex Willer, ecc.) il cui protagonista era uno spazzino americano che portava un cappello su cui era scritto “trash” con la esse rivoltata e, in quei giorni, usciva il film prodotto da Warhol, Trash, con Joe D’Alessandro come protagonista.
Nello scrivere la sceneggiatura rimaneggiai un tormentone di una vecchia Canzonissima con Manfredi, Panelli e Delia Scala.
Aggiunsi parecchia ma parecchia vodka e oplà, il gioco fu fatto. L’unico a non capire il personaggio fu Umberto Lenzi, che amava l’azione spiccia e dura e non aveva il senso dell’ironia.
Lui e Milian non legarono e ci fu una scissione che cambiò parecchie vite artistiche. Chi aveva capito tutto, da grande attore com’era, fu Milian che poco per volta rubò caratteristiche del personaggio e le traspose su Nico Giraldi. Cercai di oppormi ma trovai pochi appigli.
Avrei dovuto registrare il personaggio come opera teatrale, ma comunque la verve artistica dell’attore (mi fecero l’esempio di Totò) legava l’uomo e il personaggio. E dire che Milian non ideò mai niente.

Con quali registi con cui hai lavorato c’è stata maggiore sintonia e con chi invece hai avuto più problemi?

A parte Mario Bava e Dario Argento (con il quale ci sono state risse feroci ma ci amiamo e ci odiamo), con nessun altro. Ogni film era una litigata. Sono noto per aver svaffanculato tutti i registi con i quali ho lavorato. Difficile la collaborazione artistica.

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Com’è cambiato il cinema nei decenni in cui l’hai frequentato? Cosa ti porti dentro e cosa ti manca di più di quel mondo che hai conosciuto, oggi scomparso?

I tempi cambiano, nessuna nostalgia. Ho fatto i miei film quando li ho fatti con le cose e i mezzi che c’erano. 

Che giudizio hai del cinema italiano contemporaneo?

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Non mi accende né interessi, né emozioni. Mi sembra tutto un po’ costruito secondo tre ricette conclamate, troppo succube del sistema economico, troppo al guinzaglio dei media. Troppo finalizzato ai festival, troppi e tutti socialmente indirizzati e prevedibili.

Che differenze noti tra il modo di scrivere per il cinema di un tempo e quello di oggi?

Nessuno, il problema sta nella testa di chi scrive. Ci sono gli sceneggiatori “gregari”, che fanno i portatori d’acqua di un regista o di una produzione o di un network, sempre pronti a fare quello che viene loro chiesto, e ci sono quelli che pensano con la propria testa e lottano per scrivere il loro film e non quello di altri.

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Quali differenze ci sono tra lo scrivere per il cinema e per la televisione?

Dipende dalla stronzaggine di chi comanda.

A proposito del politicamente corretto, ho idea che per un artista sia un freno e un vincolo non da poco il fatto che gli siano preclusi certi temi o che siano prescritti il modo in cui trattarli. Che ne pensi?

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Non me ne frega niente. Voglio dire che se tu azzecchi la scena nessuno pensa al politicamente corretto. Se la sbagli si attaccano a qualsiasi cosa per attaccare te e il tuo lavoro.

Hai avuto degli epigoni? C’è o c’è stato qualche sceneggiatore che scrive alla Dardano Sacchetti?

Non lo so, francamente spero di no, per loro.

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Quali sono i film che hai scritto che reputi più riusciti, o a cui sei più affezionato?

Nessuno, ho bei ricordi di tutti ma tutti mi hanno lasciato insoddisfatto.

Sono stati più i casi in cui un regista ha migliorato, o peggiorato la tua sceneggiatura? Qualche esempio?

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I registi azzeccano una scena e poi ti sbagliano quella successiva. Il problema è il “lepre”. Perché si fa un film, cosa si vuole dire, qual è il motivo per cui ti sei spaccato le ossa e il fegato a scrivere, ovvero quale è il senso del film?

Hai conosciuto diversi produttori cinematografici: qual era il tuo rapporto con loro?

Ottimo, quasi con tutti. Una storia, una sceneggiatura è la materia prima senza la quale un film non inizia. I tuoi scritti spingono un uomo a tirar fuori soldi per realizzare un’opera. In quel momento c’è la solitudine dei costruttori di un’opera.

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Sogni irrealizzati rimasti nel cassetto?

Nessuno, forse un film che Roger Corman voleva produrre per la regia di Mario Bava.

Mi improvvisi in due parole un soggetto horror con protagonisti gli attuali politici italiani?

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I politici italiani non hanno bisogno di me per fare horror. Ci riescono benissimo da soli.

Come hai vissuto questa esperienza della pandemia? Ti ha mai dato la sensazione di trovarti in un tuo film?

Me ne sono altamente fregato. La mia vita non è cambiata di una virgola.

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