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di Alessia de Antoniis
“Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma” è l’ultimo lavoro di Giulio Base che sarà su RaiPlay dal 27 gennaio, per la Giornata della Memoria, e verrà trasmesso da Rai 1 il 6 febbraio. Wondernet Magazine ha incontrato il regista, che ha parlato del film, dell’importanza della memoria, del concetto di perdono e anche dei suoi esordi con il maestro Vittorio Gassman, e della quotidianità in famiglia con la moglie Tiziana Rocca e i loro tre figli.
Anche “Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma”, come il precedente film di Giulio Base “Bar Giuseppe”, non uscirà nelle sale cinematografiche. Sarà trasmesso in streaming su RaiPlay in occasione della Giornata della Memoria.
Girato grazie al supporto della Comunità Ebraica di Roma, nei luoghi simbolo di uno dei ghetti più antichi al mondo (quello di Venezia, il primo mai realizzato, era nato quarant’anni prima), è un racconto nuovo di una storia antica. Se l’ottobre nero è una storia vecchia (16 ottobre 1943), quella della “separazione” (Ghetto viene da un termine ebraico che significa separazione) e della privazione dei diritti civili dei “fratelli maggiori”, ha radici ben più lontane, nel Rinascimento.
Il film, un progetto nato grazie a Israel Cesare Moscati, morto nel frattempo, e portato a termine da Giulio Base, non vuole rimestare in un passato vergognoso da “non dimenticare”, quanto usare quella memoria perché quello che nei secoli si è ripetuto in forma sempre più grave, non accada mai più. Il valore dell’opera di Base risiede nel fatto che è fatta da giovani, per i giovani, in un momento in cui assistiamo a rigurgiti xenofobi in nome di un assurdo suprematismo. In occasione del suo debutto su Rai Play il 27 gennaio, per la Giornata della Memoria, e su Rai 1 il 6 febbraio, Wondernet Magazine ha incontrato il regista Giulio Base.
Nato a Torino, vive a Roma. Sposato dal 2002 con Tiziana Rocca, famosa organizzatrice e produttrice di eventi, hanno tre figli: Cristiana, Vittorio e Valerio.
Ha preso in mano un progetto già avviato da Israel Cesare Moscati, esponente di spicco della comunità ebraica romana. Lei è cristiano cattolico. Ha apportato molte modifiche? Quanto si è sentito responsabile di un simile passaggio di testimone?
Il soggetto era equilibrato e ha richiesto pochi cambiamenti. Conoscevo Israel, autore del soggetto, ebreo praticante, una persona aperta, gioviale, solare, bella. Il nostro sodalizio è stato un abbraccio unico. Andavamo nella stessa direzione, con la volontà di perseverare nella memoria, affinché fatti luttuosi, tragici e malefici non accadano mai più. L’obiettivo era abbattere, ove ancora ce ne siano, muri tra cristiani ed ebrei. Dico “ove ci siano” perché, fortunatamente, soprattutto a Roma, siamo quasi la stessa comunità. Ricordo sempre che Roma è la più antica comunità ebraica d’Europa, e la seconda del mondo dopo Gerusalemme. C’è una convivenza pacifica che dura da millenni e non c’è quasi mai stato nessun contrasto. Detto questo, ci sono diffidenze reciproche che cerchiamo di superare con questo film facendo collaborare ragazzi delle due religioni.
Emanuele Filiberto ha chiesto «solennemente e ufficialmente perdono» alla comunità ebraica per la firma di Vittorio Emanuele III, suo bisnonno, alle leggi razziali fasciste del 1938. «Un’ombra indelebile per la mia famiglia» scrive. Fermo restando che storia non si cambia, che senso ha il perdono? Che azione è perdonare?
Il perdono, nel mio vocabolario, è una delle parole più belle che esistano. Se andiamo all’etimologia, è un regalo, qualcosa che faccio per regalo, per-dono. Necessita di uno sforzo: nell’avere il coraggio di chiederlo, perché vuol dire che ci si è pentiti, altrimenti non ha nessun valore; nel concederlo, perché quando qualcuno ti fa un torto, devi avere la forza e la capacità di ingoiare e dire ti perdono. Come se tutto ciò non fosse accaduto.
Rispetto alla Shoah, è troppo grande l’evento per entrare nei meandri del perdono. Un motivo è che nessuno di quelli che oggi rimane, tranne pochissimi, è stato direttamente coinvolto in quell’eccidio mostruoso, e solo loro possono perdonare. Gli eredi, i figli, i nipoti, possono dire: per quanto mi riguarda, dimentico, non odio più. Ma non spetta a loro perdonare perché non sono stati loro i colpiti. Non spetta poi a chi quell’atto non l’ha compiuto, chiedere perdono, perché non è l’aguzzino di allora. Fortunatamente la gran parte di quei criminali sono morti, e alcuni di quelli sono stati condannati a morte. Su questo bisognerebbe interrogarsi: la vendetta ha lavato il sangue di atti così mostruosi o è stato peggio? Sarebbe stato meglio non dico perdonare, ma condannare senza morte? È complesso, ma è importante interrogarsi su questi temi.
Nel film Sofia (Bianca Panconi) parla di ricucire un filo. Lea (Irene Vetere) dice «senza quella linea mi sentirei persa». Si può ricucire? Come si ricuce quel filo?
Sui dialoghi della parte ebraica mi sono affidato all’esperienza sia di Israel che del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che mi ha dato un grande aiuto per non farmi deviare dalla giusta via. Quello è un filo loro. Come dice il personaggio di Tato (Marco Todisco – nda), in una battuta che ho scritto io, «per certi versi vi invidio anche per la forza che ha la cultura ebraica di essere così unita, legati gli uni agli altri».
In una conferenza dove intervenivano il rabbino capo Di Segni e lo psichiatra Raffaele Morelli, che non c’entra nulla col film e che parlava di felicità, Di Segni disse: «nella lingua ebraica la parola felicità indica qualcosa che tu non puoi avere se non la hanno anche gli altri». Dovrebbe essere così per tutti. Come faccio ad essere felice da solo se intorno a me non ho persone che stanno bene? Sarei di un egoismo folle.
Una scena che riassume il film?
Dal punto di vista visivo, credo l’abbraccio tra la nonna e la suora che l’aveva salvata dalla deportazione. Col passare delle settimane toglievo sempre di più e alla fine l’ho lasciata praticamente muta, solo immagini. Difficilmente la dimenticherò.
Ha iniziato con Vittorio Gassman. Cosa le ha insegnato? Cosa lo rende, per lei, grande?
Vittorio è inarrivabile per tanti motivi. Ero un ragazzino di quindici anni quando lo inseguivo per farmi fare autografi. Ho avuto la fortuna di essere suo allievo. Mi ha fatto debuttare, mi ha diretto. Credo di poter dire di essere stato un suo amico nel corso degli anni e sono l’ultimo regista che lo ha diretto nella sua carriera. Mio figlio si chiama Vittorio. È stato un rapporto meraviglioso. Quello che aveva di diverso, rispetto a Mastroianni, Tognazzi, Manfredi, e che rappresenta la sua grandezza, era la sua cultura.
Gabriele Lavia si è schierato contro Sanremo in difesa dei teatri. Lei ha lavorato in teatro, tv e cinema. Sicuramente Sanremo dà lavoro in un momento drammatico e discutere se farlo o meno è una guerra tra poveri. Ma non ha la sensazione che perda sempre il fratello povero, il teatro?
Non conosco i numeri, non conosco la questione così a fondo per potermi esprimere. Concordo che scagliarsi verso gli altri non sia il modo giusto di gestire la situazione. Ognuno dovrebbe aiutare il proprio settore. Non so se il teatro è il fratello povero o quello ricco. Quello che so è che siamo tutti in una situazione molto difficile. Teatri, cinema, ristoranti, edicole, agenzie viaggi, taxi, tutti. È una condizione difficile non solo a Roma, in Italia, in Europa, ma nel mondo. Dovremmo essere tutti più comprensivi, gli uni verso gli altri. Se c’è da fare battaglie positive, io ci sono. Negative, nel senso che mi scaglio contro quello perché quello è il capro espiatorio, no.
Lei e sua moglie Tiziana Rocca, in modo diverso, vi occupate di comunicazione. Avete 3 figli. Oggi molti si scagliano contro i social, anche il Papa. Ma non possiamo tornare indietro. Nel vostro quotidiano come affrontate tutto questo con i vostri figli?
Concordo che il tempo non si ferma e indietro non si torna. Il mondo è questo e andrà in questa direzione. I social, che stanno prendendo sempre più piede nella nostra vita, non sono diversi da altre situazioni che affrontiamo. Se vado in una pensione di un paesino qualsiasi, mi chiedono un documento e rimane negli annali che io ho dormito là. Sui social, io posso entrare con qualunque nome o pseudonimo e dire qualunque porcata. Lo dico da anni e lo ripeto: vuoi aprire un account? Mandami il documento. I social possono uccidere. Devo sapere chi sei. E da quel momento in poi tu puoi dire quello che vuoi. È semplice. Non risolverebbe tutti i problemi, ma sarebbe un deterrente. Lo dico da anni.
Come si crescono tre figli con ritmi come i vostri?
Non credo diversamente da come fanno gli altri genitori. La mattina si corre. Io esco molto presto, quindi non li vedo. La sera si cerca di avere quel momento comune a cena, durante il quale si chiacchiera e ci si racconta la giornata. Nel week-end quasi sempre insieme. Ascolto, e dialogo sono fondamentali, comunicare loro le cose belle della vita, le passioni, stimolarli. Niente di diverso da quello che credo accada nelle altre famiglie. Vedo tante persone che lavorano tanto e hanno poco tempo: è difficile per tutti.