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Licia Lanera: “Il film Spaccapietre ci mostra chi muore di lavoro per troppa fatica

L’attrice ha debuttato nel lungometraggio su braccianti e sfruttamento dei fratelli De Serio: “Interpreto una donna che senza avere figli rifonda una vita per un bambino”

Licia Lanera: “Il film Spaccapietre ci mostra chi muore di lavoro per troppa fatica
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24 Settembre 2020 - 19.01


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di Alessia de Antoniis

Attrice teatrale, la prima volta che recita in un film passato da Venezia. Licia Lanera, vincitrice del premio Ubu, è da poco tornata dalla Mostra del Cinema dove, insieme ai registi Gianluca e Massimiliano De Serio e al co-protagonista Salvatore Esposito, ha presentato Spaccapietre.
Il film parla della storia vera di una donna morta come bracciante sul posto di lavoro e di un padre e di un figlio che precipitano nell’inferno dei braccianti a giornata, vessati da caporali e padroni deformati dall’avidità. “Il film – dicono i fratelli De Serio – è un film d’amore paterno in cui affiorano i temi della morte, della violenza, della paura, dell’amore, della vendetta”.

È stata a Venezia in un “annus horribilis”. Le persone capaci vincono anche in mezzo alle difficoltà?
Sono una che non crede alla favola delle raccomandazioni; credo che ci siano dei momenti più o meno fortunati nella storia dell’umanità e nella vita dei singoli uomini, ma che il lavoro ripaga sempre. Sono stata fortunata: il primo film al quale ho preso parte è andato a Venezia.

Nel film è Rosa. Che donna è?
Non è la mamma del bambino, non ha figli, non genera nulla, ma rifonda, per lui e per la storia, la possibilità di una vita migliore. Rappresenta la speranza, ma lo fa con forza, rabbia e concretezza. È un personaggio che ha il potere di cambiare la storia.
Cosa ha scoperto di sé grazie a questo ruolo?
Mi assomiglia perché è una donna positiva nonostante le difficoltà. Come molte donne che alla soglia dei 40 anni non hanno avuto figli, ho un rapporto particolare con la maternità: questo ruolo mi costringe a rapportarmi con un bambino e nella mia vita non ce ne sono. Mi ha costretto a esplorare la mia mancata maternità.
Helen Mirren ha detto che nessuna donna dovrebbe spiegare perché non ha figli, che è completa così com’è e che non sono i figli che completano le donne…
Una donna deve purtroppo fare i conti con i condizionamenti. Se ti senti sempre fare gli stessi ragionamenti da quando nasci, quei pensieri diventano anche i tuoi. La cosa peggiore è quando il retaggio culturale si radica dentro di te e tu devi giustificare a te stessa la tua completezza o meno. Credo che molte donne che non hanno figli, lo vivano come un dramma perché si sentono incomplete non verso la società, ma verso loro stesse.
Ha mai riflettuto sul fatto che Rosa è una madre di un figlio non suo, ma pur sempre madre e che si può essere madre di tanti figli?
Sì, questo ruolo mi ha aiutata a capire che ci sono diversi modi di vivere la maternità: prendendomi cura di un figlio non mio, come nel film, o dei miei allievi nei laboratori teatrali. Ci sono ruoli che ti rendono ugualmente madre. Spaccapietre non parla esplicitamente di questo, però credo che in qualche modo l’ho riportato nella recitazione.

In un cinema dominato dai supereroi, c’è spazio per un film non-fiction come Spaccapietre?
Temo di no, ma voglio sperare di sì.

Il neorealismo portò nelle sale la vita quotidiana in un periodo in cui c’era bisogno di evasione. “Spaccapietre” parla dello sfruttamento di braccianti italiani. Il pubblico, ora, ha voglia di sapere e di riflettere? Ha voglia di tornare a pensare con la propria testa invece che per slogan?
Questa pandemia ci ha resi più tristi; c’è un impoverimento del linguaggio e un’ignoranza diffusa; è un momento culturale molto critico, dove assistiamo agli effetti di una televisione che è andata degenerando: vent’anni di Berlusconi in cui si è mirato ad una analfabetizzazione di un popolo. Gli idoli, perché gli ideali non ci sono più, si sono trasformati. Paolo Sorrentino fa un’analisi interessante su Berlusconi: il suo film (La grande bellezza – ndr) non è tanto un’accusa al personaggio, quanto a noi che abbiamo voluto essere come lui: ricchi, con fidanzate giovani anche in età avanzata, senza il rispetto delle regole. Tutto questo ha generato cambiamenti nella società. Gli idoli, ora, sono i vincenti e la vita è bella se siamo bellissimi, ricchi e felici. Noi siamo sbarcati a Venezia con un film dove siamo tutti mezzi brutti, sovrappeso, tranne il bambino che è bellissimo.
“Spaccapietre” è il trionfo di qualcos’altro: non è un film patinato, è un film duro. Si concentra sui dettagli, a volte forti, ma senza dare spazio al voyerismo. Se fosse stato più splatter, più violento, magari avrebbe avuto un’attenzione diversa. I De Serio non ammiccano mai, e questo lo rende un film difficile da digerire, che ti lascia dentro qualcosa di doloroso perché ti mette nella condizione di vedere un essere umano in difficoltà. Siamo morbosi davanti al grande evento di cronaca, come la morte di Willy, ma la quotidianità brutta non la vogliamo vedere.
Il problema degli slogan si collega all’ignoranza diffusa, iniziando dai nostri politici che hanno abbandonato un linguaggio colto, forbito, come se fosse una cosa negativa: “io non parlo il politichese”…
Il popolo che usciva dalla guerra, si poneva davanti a un De Sica o a un Germi sicuramente con ignoranza, ma dovuta alla mancanza di strumenti più che alla scelta di strumenti superficiali. Non è più l’ignoranza contadina, di una persona che non sa ma cerca di assorbire, è una sorta di repulsione verso qualcosa che può essere più sofisticato. Il teatro, ad esempio, ne paga le spese.

Molti gridano contro gli immigrati che ci rubano il lavoro, ma i protagonisti del film sono italiani. “Spaccapietre” parla di qualcosa che a molti è sconosciuto. Si parla spesso di morti “sul” lavoro, ma si può morire “di” lavoro nel 2020?
È stato definito un film marxista. Oggi parlare di capitalismo, marxismo, non ha più senso. La produzione è sovrana, che sia una cinta di Gucci o i pomodori. Spaccapietre parla di quello che può succedere nelle vite degli uomini, in assenza di sistemi di sicurezza sociale e sanitaria sui posti di lavoro. Paola Clemente è morta due anni fa “sul” lavoro, ma “di” lavoro e non perché ha subito un incidente. È morta di fatica in un Paese in cui si preferisce non vedere, perché tanto siamo il Paese più bello del mondo. Il covid ha portato alla ribalta il problema del lavoro nero, per cui molti lavoratori non hanno avuto accesso ai vari ammortizzatori sociali, a cominciare da noi dello spettacolo. Alla fine, pur di andare avanti, si accetta quello che il mercato offre.

Come ha reagito il pubblico?
Il film è piaciuto tantissimo. Sono rimasta colpita dallo stupore manifestato dagli spettatori che non pensavano accadessero ancora queste cose. È un film iperrealista. Parte dalla realtà per estrapolare delle verità che diventano assolute. All’inizio dici “ma io mica sono un bracciante, mica sono sporco, non sto nella baraccopoli”, poi inizi a diventare anche tu quel personaggio. Le violenze che vedi subire, in un certo modo le personalizzi. Ho visto gente in lacrime perché tocca delle corde umane, oltre che politiche.
È un film duro, radicale. Il dolore sta nel vedere una sequenza di tre minuti dove i braccianti lavorano nei campi, con quarantacinque gradi, che sudano davvero, non nella spettacolarizzazione di scene cruente. La violenza sta nel vedere la fatica del lavoro, piegati sotto il sole per ore per venti euro al giorno. Si può morire lavorando così. In questo è radicale. Questo film ha poco a che fare col modo di parlare di produzioni di successo, alla Gomorra.

Dove si trova più a suo agio? Sulle tavole del palcoscenico o davanti ad una cinepresa?
Il teatro è la mia vita. Il cinema è stato un bellissimo viaggio, dove ho portato alcune cose del teatro e ne ho imparate di nuove. Spero possa ricapitare, ma senza il teatro faccio fatica a vivere: è la mia vita e anche la mia condanna.

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