Nel 1973 Mario Monicelli mandò nelle sale “Vogliamo i colonnelli”, parodia di un colpo di Stato immaginario che raccontava, in forma di parodia, l’eversione politica della destra italiana. Quel lungometraggio ebbe Ugo Tognazzi protagonista indossando la giacca di tal Beppe Tritoni deputato della Grande Destra e rimandava a un tentativo, abortito, di golpe fascista del 1970 mentre era l’anno del golpe cileno. Ne scrive Enrico Deaglio nel saggio «Sono stati gli anarchici, vero?» che riprendiamo da un magnifico numero monografico di “Bianco e nero” sul regista toscano. È il numero 596 del quadrimestrale in vendita nelle librerie, diretto da Felice Laudadio ed edita dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalle Edizioni Sabinae (pp. 192, € 18). Da questo volume riprendiamo il testo di Deaglio che illumina anche su cosa sia la destra italiana e su come il dramma e la farsa siano un tratto fondante della nostra storia, del nostro carattere, della nostra politica anche oscura.
È giusto però prima ricordare alcuni tra i tanti contributi al numero monicelliano che hanno reso difficile, in franchezza, la scelta. Per esempio Giulio Ferroni legge in Amici miei una tradizione letteraria che rimanda direttamente a un nobilissimo ispiratore letterario: “La supercazzola? L’ha inventata Boccaccio”. Senza trascurare le testimonianze d’artista di chi ha lavorato con un regista capace di far sganasciare dalle risate come di lasciare un retrogusto amaro nel riso perché inquadra piccolezze e furbizie di cui buona parte degli italiani è maestra. Oppure Franco Cardini che trova i “mille padri” dell’armata Brancaleone in poeti come Villon, in pittori come Dürer, in registi come Bergman e Buñuel. E dunque tra i ricordi di produttori, aiuto registi e altri vanno citati, tra i tanti, Gigi Proietti, Ornella Muti, Michele Placido, Milena Vukotic, Laura Morante, Paolo Virzì, Giuseppe Tornatore, Marco Risi, Enrico Vanzina.
Il “Bianco e nero” in libreria ritrae quindi uno dei maggiori registi del ‘900 e fa capire come la sua commedia all’italiana abbia saputo narrare un paese fondato sulle contraddizioni e nelle incoerenze. Ve ne consigliamo davvero la lettura e l’acquisto. Per gentile concessione dell’autore e dei due editori, il CSC e le Edizioni Sabinae eccovi il testo di Deaglio.
di Enrico Deaglio: «Sono stati gli anarchici, vero?» “Vogliamo i colonnelli”, cronaca di un golpe (quasi) immaginario
Di Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli la prima cosa che si può dire è che è invecchiato davvero bene; anzi, sembra che le cronache dell’Italia moderna siano fatte proprio per dargli modernità e, quasi, capacità profetiche. E dire che è un piccolo film girato quasi mezzo secolo fa (uscì per il Festival di Cannes nel 1973, pochi mesi prima del colpo di stato in Cile), la favola grottesca e feroce di un cialtronesco colpo di stato in Italia, al tempo accolto con furori e insulti dalla destra e dismesso con accuse di qualunquismo dalla sinistra. Ma forse perché siamo reduci dalle celebrazioni, questa volta in grande stile e addirittura con qualche rimorso statale (ohibò! Era pur sempre il cinquantesimo anniversario), della strage di piazza Fontana; forse perché siamo nel cinquantesimo del famoso colpo di stato della notte dell’Immacolata (1970), in cui il principe Junio Valerio Borghese doveva rivolgere un proclama alla patria, rivedere oggi quella pellicola fa accendere molte lampadine.
Ma cominciamo dall’inizio. Nel 1973 Mario Monicelli, a 58 anni, è un regista famoso e nel pieno della sua attività. Insieme a Dino Risi è acclamato in tutto il mondo come il maestro della commedia all’italiana, quel genere nato dal neorealismo e diventato molto più realista del suo maestro, morto di retorica e di ideologia. Per capirci, Monicelli è il regista di I soliti ignoti, La grande guerra, I compagni, La ragazza con la pistola, L’armata Brancaleone, ovvero la persona che è andata più in là degli altri nella fantasia della sceneggiatura, nella valorizzazione degli attori, nella ricerca sul carattere dei compatrioti e ha addirittura inventato il grammelot medievale prima di Dario Fo; e il 1973 è uno dei tanti anni bui in Italia, in cui si respira la fine delle utopie sessantottesche e si è immersi in una palude di scandali, crisi economiche, esportazioni di capitali; le continue notizie di colpi di stato (sventati, progettati, in atto) creano una nuova lingua, espressioni orwelliane come “opposti estremismi”, “maggioranza silenziosa”, “vigilanza democratica”, mentre sui muri si scrive «Ankara Atene adesso Roma viene».
Su questo clima, Monicelli ci fa un film con l’intenzione di fare male, a tutti. Protagonista è il deputato della Grande Destra Beppe Tritoni, un Ugo Tognazzi supremo, al massimo della laidezza e della volgarità, questa volta maremmana, che organizza un gruppo di spostati nostalgici del Duce – generali sull’orlo dell’ictus, paracadutisti, motociclisti, marò (tutti subumani), buttafuori siciliani che parlano una protolingua gutturale, industriali truffaldini che vivono di commesse statali – per «distruggere finalmente la democrazia, restaurare l’ordine e il comando». Il piano rispecchia quello che si sapeva allora della destra eversiva, e in particolare del fallito colpo di stato di Borghese; nel film, tutto fallirà in una serie di contrattempi esilaranti, ma – è qui la sorpresa – sarà sfruttato dal ministro dell’Interno della Democrazia Cristiana come occasione per attuare un vero attacco alla democrazia, fatto di limitazioni del diritto di sciopero, fermo di polizia, divieti di assemblea, schedatura dell’opposizione.
Il film ha una struttura originale e moderna: si immagina un documentario televisivo che racconta di una antica “congiura dei colonnelli” in Italia, che diede origine a una seconda Repubblica; le gag si succedono con la voce narrante di Riccardo Cucciolla e le invenzioni degli sceneggiatori Age e Scarpelli. Sublimi la cronaca del funerale di un vecchio generale golpista, il cui feretro è seguito da commilitoni, parlamentari, industriali «tra cui si notano Arranca, Arranfa, Scippa i cui opifici sono posti sulla via del corteo»; il monologo sulla corruzione della sinistra, affidato al giornalista extraparlamentare interpretato da Pino Zac (il vignettista che pochi anni dopo fonderà la rivista «Il Male»); la morte del generale rimbecillito che mangia solo Pasta Combattenti; l’ufficiale dei servizi segreti greci Automatikos (l’unico che dà loro retta, solo perché è più disgraziato di loro) e soprattutto l’idea di far girare tutta la vicenda intorno alla foga erotica della militante Marcella Bassa Lega, una fantastica Carla Tatò che anticipa quello che sarà, nella cronaca vera italiana, il ruolo di Alessandra Mussolini.
Vogliamo i colonnelli non è l’unico lavoro della cinematografia italiana a occuparsi “in tempo reale” dell’eversione politica della destra italiana; valgono, come esempi di rapida reazione civile, i film di Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970) e di Marco Bellocchio (Sbatti il mostro in prima pagina, 1972), ambedue interpretati da Gian Maria Volonté, nel ruolo di un potente commissario di polizia e di un famoso giornalista, esempi di una nuova Italia violenta, autoritaria e manipolatrice. Ma la prova di Monicelli va oltre. Da una parte, nella descrizione della volgarità esistenziale fascista coglie un tratto vero della nostra storia patria: nessuno dei personaggi veri della storia del fascismo arrivò mai ad avere una decenza e una tragicità, né in vita, né in morte, né tra gli epigoni; ma nello stesso tempo il fascismo è parte reale di una identità italiana.
Non è certo un caso che gli strepitii maggiori della destra contro il film siano stati rivolti contro Ugo Tognazzi, non come attore, ma come persona, perché Tognazzi, nativo di Cremona, era effettivamente stato un militante delle Brigate Nere della Repubblica di Salò; la sua maschera – il dialettaccio, l’arte di arrangiarsi, la disperata sessualità, la paura dell’invecchiamento e della morte – era effettivamente una tragedia neorealista. Per altri versi, però, Tritoni/Tognazzi era una maschera comune a tutti, familiare. Come ebbe a dire Ennio Flaiano, «un colpo di stato in Italia non si può fare, perché ci conosciamo tutti». Da parte contraria, la sinistra non apprezzò che il colpo di stato venisse messo in caricatura, e soprattutto di essere messa nello stesso calderone. La sceneggiatura, in questo caso, è molto radicale. Il giornalista squattrinato (Pino Zac, in cui sembra che Monicelli si identifichi) raccoglie le prove fotografiche che si sta preparando un golpe e, invece di vendersele (all’«Espresso»), le va a portare, gratis, al “partito”, che sarebbe poi il Partito Comunista, il quale però si rivela essere anch’esso corrotto, svilito, pavido. L’analisi della società italiana di Monicelli non è poi molto diversa da quella che Pier Paolo Pasolini scrisse, nel 1974, con il famoso «Io so. Ma non ho le prove» sul «Corriere della Sera» e che Leonardo Sciascia provò, sommessamente, a gridare raccontando le sue lontanissime storie di mafia e di potere.
Ci sarebbe ora da domandarsi che cosa ha rappresentato, per Monicelli, questo film “minore”, artigianale, che non ebbe particolare successo di pubblico. Non sono abbastanza esperto in materia, ma credo che la biografia del regista venga in aiuto. Qui abbiamo un bambino che ha sofferto per il suicidio del padre antifascista, subito dopo la guerra; abbiamo un viareggino dalla vena socialista, ma soprattutto anarchica, in disprezzo totale, più che in odio, delle autorità; e abbiamo un paese, l’Italia, attraversato da un fascismo mai morto e da una capacità manipolatoria e fabbricatrice di ipocrisie con pochi uguali. Il film si apre con l’annuncio che un attentato ha fatto esplodere la Madonnina sul Duomo di Milano, la televisione si collega e chiede all’attonito corrispondente: «Sono stati gli anarchici, vero?». E l’altro balbetta: «Sì, certo». Difficile non pensare che la strage di piazza Fontana non abbia avuto un effetto sul modo di pensare e di fare cinema di Mario Monicelli; possibile invece pensare che Vogliamo i colonnelli, e i successivi Romanzo popolare (di nuovo con Tognazzi) e Un borghese piccolo piccolo (addirittura con un Alberto Sordi mostrificato) segnino la progressiva estinzione di qualsiasi speranza per il nostro paese. C’era una ferocia allegra, all’inizio. Che poi non è più per niente allegra.
Per tornare sulla modernità del film e sull’eternità della cialtronaggine italiana, la richiesta di pieni poteri fatta dall’ex ministro dell’Interno nell’estate del 2019 da una spiaggia dell’Adriatico avrebbe potuto essere un cammeo di questo film di mezzo secolo fa.
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