“Il mio nome è Alzheimer” di Raffaella Regoli e Antonello Sette vince il Premio della Giuria e trionfa a Ferrara

Un documento straordinario, realizzato da Raffaella Regoli e Antonello Sette. E che sarà protagonista a Ferrara di due grandi eventi in ventiquattro ore.

“Il mio nome è Alzheimer” di Raffaella Regoli e Antonello Sette vince il Premio della Giuria e trionfa a Ferrara
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18 Settembre 2020 - 12.58


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di Elena Redaelli 

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“Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti ma alberi…” canticchia tra sé e sé Anna. Il suo canto, le voci dei protagonisti, i malati di Alzheimer, si levano oltre i muri dell’oblio, del non ricordo, dei pregiudizi. Perché al tempo del Covid questi malati, queste persone, hanno pagato un prezzo altissimo. Sono proprio queste voci ad aver convinto la Giuria del “Ferrara film festival” ad assegnare al docufilm “Il mio nome è Alzheimer”, un premio speciale per “l’alto valore sociale”.
Un documento straordinario, realizzato da Raffaella Regoli e Antonello Sette. E che sarà protagonista a Ferrara di due grandi eventi in ventiquattro ore. Domenica 20 settembre, alle ore 17,30, il docufilm, girato interamente nel “Villaggio Emanuele” di Roma, sarà proiettato e premiato all’Apollo Cinepark, come vincitore del Premio Speciale della Giuria del Ferrara Film Festival 2020. Lunedì 21, in coincidenza con la Giornata mondiale dell’Alzheimer, il docufilm di Raffaella Regoli e Antonello Sette aprirà la serata celebrativa, organizzata dal Comune di Ferrara, in collaborazione con l’Associazione malati di Alzheimer della città estense e coordinata dall’Assessore alla Cultura Marco Gulinelli.
“Il mio nome è Alzheimer” entra in presa diretta, senza mediazioni e rimozioni, dentro la vita quotidiana dei malati, persone che non possono contare su nessuna cura diversa dall’amore. E l’amore, nella sua forma più vera e commovente è il leitmotiv del docufilm. Come se di tutto si può perdere la memoria, finanche dei nomi dei figli, del marito, della moglie, di se stessi, ma non del filo di sentimenti senza fine. Bruno va a trovare Kati tutti i giorni.
“Se potessi”, dice, “mi farei operare e le regalerei mezzo cervello”. E lei uscendo per un attimo dal torpore che non le cancella l’anima, gli risponde: “Tu ti priveresti di una tua cosa per me?”. Perché, come spiega Bruno, “Kati è ancora Kati, Kati è ancora speciale”. E poi l’amore di Simona per il padre Enzo, che un tempo era la sua guida e ora ha solo un disperato bisogno di lei, anche se non sa che quella donna è sua figlia. E Riccardo che si commuove davanti ai disegni che Maria Clara faceva quando era un’apprezzata modista. “E’ dolcissima”, ripete fra le lacrime. E lei gli chiede, ansiosa come una donna ancora innamorata: “Davvero?”.
E poi c’è il contesto, la vita di tutti i giorni, gli operatori che si prodigano oltre la professionalità, perché “l’unica cura è l’amore”; le attività: la musica, la danza, il teatro, la pittura, la palestra, il bar, il parrucchiere, il minimarket dove si fa la spesa, il pranzo, le case, divise secondo tre tipologie, che ricalcano le esperienze di tante vite un tempo diverse: familiare, urbana, cosmopolita. E soprattutto ci sono loro, i veri protagonisti del docufilm, i malati di Alzheimer, che raccontano in prima persona spezzoni di vita, di gioia, di dolore e di sogni che sopravvivono alla fatica di dover vivere nonostante la perdita più pesante: quella della propria storia e della propria identità.
Raffaella Regoli e Antonello Sette restituiscono a tutti loro un nome, una voce, una risata, un lamento, la dignità di persone e non di malati “senza memoria”. La possibilità di poter ancora concepire e gridare la loro voglia di ridere, di piangere, di vivere. Perché nessuno, questa volta, possa più dimenticarli. 

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