Perché è arrivato il momento di cambiare il nome alla coppa Volpi

Giuseppe Volpi, “Conte di Misurata”, fu il fondatore e presidente della Biennale di Venezia, ma aderì convintamente e fin dalla prima ora al fascismo, senza mai rinnegarlo.

Perché è arrivato il momento di cambiare il nome alla coppa Volpi
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14 Settembre 2020 - 21.09


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di Giuseppe Costigliola 

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L’Italia è un Paese notoriamente tradizionalista, ravvoltolato sulle proprie vestigia. Nello stesso tempo, cosa all’apparenza contraddittoria, è un Paese dalla memoria miope, dimentico del proprio passato, in particolare di quel periodo ulceroso che gli storici chiamano “ventennio fascista”. Questa perniciosa amnesia altro non è che la mancanza di volontà di fare i conti con la propria storia, purificare il presente dalle scorie e dai veleni che un passato criminale continua a inoculare nel corpo sociale.

Negli Stati Uniti e nei Paesi occidentali culturalmente più evoluti sono in atto da tempo riflessioni, riconsiderazioni della propria storia, alla luce delle conquiste etiche della contemporaneità. Si abbattono statue di schiavisti, si cambiano nomi di strade dedicati a politici razzisti, a personaggi nefandi, si ricalibrano i libri di storia. E da noi?

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Da noi si levano qui e lì voci isolate, canti disperati in un silenzioso deserto di strafottente indifferenza, perse nelle sterili sabbie di una cultura retriva. Ultimo esempio, l’articolo comparso sull’Espresso in cui un giornalista e due agguerriti storici si chiedono (e chiedono a noi tutti): “Può esistere, oggi, un premio intitolato a un uomo che predicava la supremazia della ‘razza’? Come può un premio che celebra la libertà d’espressione e di pensiero essere dedicato a chi ha sposato un disegno totalitario che quei valori li ha violentemente soppressi?”

L’uomo a cui si riferiscono è Giuseppe Volpi, il premio quello assegnato annualmente dalla Mostra del cinema di Venezia al miglior attore e alla migliore attrice – la coppa Volpi. Ma chi fu davvero costui?

Giuseppe Volpi, “Conte di Misurata”, fu il fondatore e presidente della Biennale di Venezia. Ma quella fu soltanto una delle numerose e prestigiose cariche ricoperte dal “Conte”, la cui vicenda biografica varrà la pena di riesumare.

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Nacque a Venezia nel 1877, da padre che partecipò giovanissimo come garibaldino ad alcune battaglie della Guerra d’indipendenza del 1860 e madre di piccola nobiltà di provincia. A 19 anni iniziò gli studi in giurisprudenza all’Università di Padova, tentò la carriera giornalistica e un concorso andato male presso la Corte dei Conti: non era quella la sua strada. Lo era invece quella degli affari, per cui denotò presto qualità non comuni. Partito come impiegato in una società di assicurazioni vita francese, fece subito strada. L’imprenditoria era il suo campo d’elezione: costituì numerose società, in svariati rami, e in particolare con la Volpi & C. avviò una fruttuosa attività di import-export di prodotti agricoli con l’Ungheria, sfruttando rapporti di amicizia sviluppati con uomini politici di quel Paese, a tal punto da acquisire un’esclusiva nel commercio con quella nazione.

Nel 1900 lo troviamo in Serbia, dove strinse rapporti di amicizia con l’allora ministro delle Finanze, nonché futuro Primo ministro, e con altri potenti notabili, tanto da entrare in un comitato per la costituzione di un’agenzia commerciale serba in Italia e per una banca italo-serba a Belgrado. Accumulò di suo una piccola fortuna che investì oculatezza in altre attività, tra cui in una società mineraria per lo sfruttamento di un giacimento di antracite in Carnia. Abilissimo nel costruirsi reti di contatti (non mancò di sposare la rampolla di una famiglia nobile e danarosa), allargò le sue attività a quelle diplomatiche (nel 1903 fu vice-console, e dal 1905 console onorario di Serbia e nello Stato di San Marino), e neanche venticinquenne divenne il punto di riferimento di uno spregiudicato gruppo di imprenditori, uomini d’affari e possidenti veneziani, con cui intraprese sempre più numerose iniziative economiche. Cose grosse: tra il 1902 e il 1903 realizzò un vasto accordo con il Montenegro, trattando direttamente con il re Nicola I, padre della Regina Elena di Savoia, per la costruzione di una ferrovia, di un porto, e per lo sfruttamento di miniere e risorse forestali. Sempre nel 1903 divenne amministratore delegato dell’appena costituita Regia Cointeressata dei tabacchi del Montenegro, società che gestiva una ricchissima risorsa di quel Paese. Nel 1905 fu direttore e poi amministratore delegato della società incaricata di svolgere i lavori per la realizzazione del porto di Antivari e per la costruzione di una ferrovia che collegava il porto ad una località sul Lago di Scutari, centro nevralgico per il passaggio delle merci verso Vienna, i Balcani e Costantinopoli, operazioni rese possibili grazie all’intervento della Banca Commerciale Italiana, con i cui vertici Volpi era in ben proficui rapporti.

Nel 1904 si avventurò nel nuovo e promettente business elettrico. Acquisì con dei soci alcuni piccoli impianti elettrici e l’anno seguente costituì una nuova impresa, la Società Adriatica di Elettricità (SADE): il primo passo verso la costruzione di uno dei maggiori colossi italiani del settore.

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Nel 1912, con la Guerra italo-turca, mise a frutto i suoi contatti nel mondo ottomano e nei Balcani: Giolitti lo nominò ministro plenipotenziario, e fu tra i negoziatori italiani che discussero i termini del Trattato di Losanna: ormai era una personalità pubblica.

Nel 1913, oltre che presidente della SADE Volpi era vicepresidente delle Officine Galileo di Firenze (impresa che fabbricava strumenti ottici di precisione per le navi da guerra e principale fornitrice del Ministero della Marina), consigliere e azionista di un’altra decina di società, tra cui la Compagnia Italiana Grandi Alberghi (CIGA), proprietaria dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. Nemmeno il conflitto mondiale fermò l’ascesa di Volpi nel gotha del capitalismo italiano: nel 1917 gestì con altri soci la realizzazione del nuovo Porto Marghera, e dopo la guerra acquistò prestigiose catene alberghiere.

Naturalmente Volpi era un massone, e aderì subito al fascismo. E qui cominciano le dolenti note. Se infatti sino a quel momento possiamo solo immaginare le torbide attività che resero possibile una tale scalata, adesso cominciano i fatti accertabili. Nel 1922 divenne Senatore del Regno, e da quell’anno al 1925 fu governatore della Tripolitania italiana. In tale veste si macchiò dello sterminio delle popolazioni locali insieme a quel galantuomo di Rodolfo Graziani. Quale premio di cotanto ardore, nel 1925 l’altro galantuomo, Vittorio Emanuele III, gli conferì il titolo di “Conte di Misurata”. Da quello stesso anno sino al 1928 fu Ministro delle Finanze del governo Mussolini, e

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dal 1934 al 1943 fu presidente della Confindustria, continuando in tale veste l’opera di promozione degli interessi del capitalismo italiano presso il regime, assicurando come contropartita il sostegno e la collaborazione del mondo industriale al progetto politico mussoliniano.

Nel 1938 fu presidente del Consiglio di amministrazione delle Assicurazioni Generali in luogo del dimissionario Edgardo Morpurgo, costretto, in quanto ebreo, a cedere la guida dell’istituto assicurativo a causa delle leggi razziali, di cui Volpi fu fervido assertore. Mentre era al vertice della Confindustria fu anche presidente della Biennale di Venezia, e il principale promotore della Prima Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica, antesignana dell’attuale Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia: per questo la coppa porta ancora oggi il suo nome.

La sua presa di distanza dal fascismo e dai suoi crimini fu debole e tardiva, avvenuta dopo la deposizione di Mussolini da parte del Gran Consiglio. Attese la fine delle ostilità in Svizzera, in comodo rifugio. Nel dopoguerra uscì indenne da una serie di procedimenti per le sue non lievi responsabilità durante il regime: gli anni trascorsi a tenere le fila del potere, a tessere reti di amicizie trasversali non risultarono vani, e infine l’amnistia Togliatti lo tolse dai guai. Morì nel suo letto nella Villa Barbaro di Maser, dimora cinquecentesca opera di Andrea Palladio (dichiarata nel 1996 patrimonio dell’umanità dall’UNESCO), acquistata dalla famiglia Barbaro e restaurata. Il suo funerale fu celebrato dal futuro papa Giovanni XXIII, Angelo Roncalli.

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Torniamo ora alle domande da cui siamo partiti, poste da Massimiliano Coccia, Carlo Greppi e Francesco Filippi: “Può una via che percorriamo tutti i giorni, una piazza, una scuola, o appunto un premio essere intitolato a chi aderì convintamente e fin dalla prima ora al fascismo, senza mai rinnegarlo? A chi sottoscrisse le ‘leggi razziali’ che furono il preludio alle deportazioni e allo sterminio degli ebrei italiani? A chi salutò con immenso favore le ‘imprese’ coloniali e imperialiste e le guerre d’aggressione dell’Italia fascista? A un uomo che nel ventennio fu tra i più fidati collaboratori di Mussolini?”

Evidentemente, no. Il profilo di Volpi non si può definire quello d’un fascista occasionale. Egli fu ben più di un “uomo del suo tempo”, in balia degli eventi. Volpi fu un alto gerarca, sostenitore organico di dichiarata “fede” fascista, individuo potentissimo che continuò ad arricchirsi durante il ventennio, orchestrando i rapporti con il mondo industriale, mascherandone le clientele e le ruberie (Piero Calamandrei non esitò a definirlo “ladro”), convinto sostenitore di politiche totalitarie e liberticide, che prese tardive e non convinte distanze dal regime (mai ne pronunciò parole di condanna).

Sì, è davvero arrivato il momento di mutare nome all’ambita coppa, quest’anno assegnata a Francesco Favino. Intitoliamola pure a Franca Valeri, come proposto nell’articolo citato, perché no? Sarebbe certo “un doveroso omaggio alle artiste troppo spesso dimenticate, alle donne che hanno reso e rendono con il loro impegno artistico, sociale e culturale un contributo centrale per la crescita del nostro Paese”. Ma sarebbe anche e soprattutto un modo per cominciare a fare finalmente i conti con la nostra putrida storia, per entrare di diritto nel consesso delle nazioni che si dicono civili.

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